di Nadia Budde
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Nadia Budde è nata nel 1967 a Berlino, dove vive e lavora come illustratrice, recita la seria biografia di un'artista che ha vinto premi prestigiosi come il Deutscher Jugendliteraturpreis e il Bologna Ragazzi Award grazie a un umorismo bizzarro e irregolare. Invece, la vita nascosta nella sua autobiografia illustrata potrebbe essere riassunta così: Nadia Budde è nata a Berlino Est leggendo striscioni sibillini che i suoi (quasi) concittadini appendevano dall'altra parte del Muro, è cresciuta dentro un palazzone dove i visitatori venuti dall'Ovest dovevano prima essere iscritti nel registro del condominio, a scuola festeggiava il primo maggio anche se i grandi sembravano perplessi ed è stata bambina in un'epoca in cui i genitori dicevano ai figli che era meglio non parlare al telefono di Starsky & Hutch.
Sangue dal naso e altre avventure, tradotto da Soledad Ugolinelli, arriva in Italia in una collana originale e ancora sotterranea nonostante il premio Andersen 2010 come miglior collana di narrativa: si chiama "Gli anni in tasca", come il film di formazione di Truffaut, ed è stata ideata dalla casa editrice Topipittori per diffondere narrazioni autobiografiche, perlopiù di scrittori e illustratori, tratte dalla propria infanzia e adolescenza. A un catalogo che va da Bernard Friot a Giusi Quarenghi si aggiunge ora Budde, con la sua immaginazione esilarante e sconfinata e un libro che non è un albo e neppure un fumetto, ma un ibrido bellissimo diviso in capitoli intitolati Ciclamini e peli ascellari o È uscita la donna!.
Tutto il grigiore che ci si immagina pensando a un'infanzia nella Ddr si trasforma in una riflessione profonda e colorata su cosa significhi essere bambini e poi adulti tenendo ben stretti i ricordi visivi e olfattivi dentro il cervello: il tempo è uno sciame di mosche, il tempo è un bosco di funghi, il tempo fa morire le persone, muoiono anche i nonni che vivevano in campagna insieme alla morte che era una cosa quotidiana, quella delle pelli delle galline che sfrigolavano sul fuoco e quella dei topi nelle tagliole della stalla. Per la bambina Nadia ne esistevano due tipi: la morte di città, che veniva dal televisore, dagli incidenti giù in strada e dalla cronaca ed era ogni volta eclatante e misteriosa, e la morte di campagna, che invece era una cosa semplice e comune come la retina nei capelli delle anziane di paese.
Tra anziane signore che lavano i bicchieri con la birra e sbiadite estati sul Mar Baltico dove l'acqua è marrone, piove quasi sempre e il corpo si ricopre di bolle per l'inquinamento, Nadia Budde cresce prigioniera degli odori e dei dettagli in un mondo fatto di mietitrebbia e bollettini meteo, di ascensori e slogan rivoluzionari, di moccolo dal naso e dei baffi ispidi della nonna, dei lampi della Storia e delle storie tortuose degli altri. "Essere bambini era: scarabocchiare sotto il piano del banco, bere il latte bollito con la pellicina, leccare i pennarelli, avere i pidocchi, andare a dormire mascherati, indossare una calzamaglia che prude sotto i pantaloni…" scrive in un lungo elenco precisissimo che termina con una caduta. Diventare grandi significa cadere, anzi: essere già caduti, aver assistito alla fine di un regno, il proprio, e poi essersi rialzati per ritrovarlo intatto dentro di sé insieme a un pennarello per rievocarlo.