Checché ne dica Celeste

[di CristinaBellemo]

La leggerezza perdutaha cominciato a viaggiare tra le persone, piccole e grandi, da unbel po’ di tempo. E subito mi sono resa conto che, delle persone,intercettava la sensibilità, i sentimenti, le emozioni in manierasorprendente.
La scintilla che l’ha fatta nascere èstata una domanda bambina: in seguito al bombardamento mediaticodi una parola, crisi, i miei figli, allora piccolini, mi hannodomandato che cos’è la crisi. Questa cosa chesembrava fare così tanta paura ai grandi (e dalla quale, dunque,i bambini come avrebbero potuto difendersi…).
Ho pensatodi rispondere con una storia, riflettendo al contempo sul peso (nienteaffatto leggero) che le parole hanno per i bambini,quelle che noi adulti ci prendiamo il lusso di buttare in mezzo, con laleggerezza della superficialità, senza interrogarcisui loro significati, e sui loro effetti.
Il primo incontroufficiale della storia, dopo quello familiare con i miei figli, divertitipiù che altro dalla trama, e con Massimiliano, mio marito, instancabilee però severissimo ascoltatore (che mi ha dato ottimi suggerimenti),è stato quello con la giuria del premio Andersen, a Sestri Levante, chedecise di assegnare alla storia nel 2009 il trofeo Baia delle Favole:l’unico caso in cui, al ricevimento del telegramma, sono riuscita apercorrere le scale di casa mia nel tempo record di tre secondi, quattrogradini alla volta.
La suddetta giuria aveva ravvisato nellastoria echi ariosteschi, con particolare riferimento ad Astolfo che vasulla luna a recuperare il senno di Orlando. Interessante: Ariosto è trale mie amate letture liceali e universitarie, ma se un riferimento c’èstato, è stato del tutto inconscio.


Consapevole, invece, è stato, in fase di scrittura, il tornare a unodei miei libri del cuore: Il deserto dei tartari diBuzzati, soprattutto per l’ambientazione e l’atmosfera. E poiquell’ultima porzione di stelle del maggiore GiovanniDrogo è da sempre uno dei versi letterari che più mi appassionano.
Poi la storia ha proseguito il suo viaggio, raccontata ai bambiniin tante, diversissime situazioni, ma raccontata spesso anche ai grandi,la maggior parte delle volte in seguito a loro esplicita richiesta.
Dopo la lettura, proponevo un gioco: se fossimo anche noi abitantidel castello di Celeste, a cosa saremmo disposti a rinunciare, persalvarci dal precipitare, e a cosa invece non rinunceremmo per nullaal mondo? Le risposte chiedevo di scriverle in tanti bigliettini,anonimi o no, a discrezione di ciascuno.

Tutte le volte ilgioco è stato accolto con grande serietà, pur cercando io, di fronte acerte 'rivelazioni', di alleggerire i toni (senza mai banalizzare, però):come se fosse uno spazio a lungo atteso (spesso ho percepito una sortadi implicito finalmente!) per riflettere sul propriosuperfluo e sul proprio necessarioma, soprattutto, per condividere le proprie riflessioni nel gruppo. Perraccontarsi ed essere ascoltati. Come se il proprio 'qualcosa dadire' fosse stato a lungo, e faticosamente, tenuto dentro, e oraavesse la necessità di essere detto. Detto a qualcuno disponibile adaccoglierlo. E forse era, questo, proprio un buttare via le cose pesanti,un alleggerirsi, un piccolo, momentaneo, transitorioma significativo recupero della leggerezza perduta. Nelcondividere i pesi.
In molte classi sono emerse, così, storiepersonali sconosciute, seppure dopo una convivenza di molti anni (comemai?); conflittualità sommerse e bisognose di essere portate alla luce, erisolte; piccoli tesori di esperienza che dovrebbero trovare mani dispostea raccoglierli e a conservarli per sempre.
La lista dellecose pesanti di cui liberarsi andava via via allungandosi. Un bambinodi quinta elementare, una volta, mi ha detto che dal castello avrebbebuttato giù i sensi di colpa. I sensi di colpain quinta elementare…
Naturalmente in questi elenchivariopinti comparivano i libri, i compiti a casa, fratelli o sorellerompiscatole, genitori brontoloni, maestre (peraltro lì presenti e,in genere, assolutamente impassibili), brutti voti, e impegni noiosi(come la danza  a cui la mamma mi costringe adandare).
Qualche volta veniva fuori il nome di unacompagna o di un compagno. Cosa che, nelle normali dinamiche di relazioneavrebbe potuto anche far sorridere, non fosse che a volte quel nomericorreva nelle parole di così tanti bambini della classe, da far pensarea un rischio vero, e pesante, di emarginazione. Dicui occuparsi ben oltre il gioco della leggerezzaperduta.
Ma si allungava anche la lista dellecose da tenere, clandestinamente, per sé, in barba a qualsiasi reCeleste, perché troppo preziose.

Ricordoun episodio, per me straordinario (tanto da avermi ispirato un raccontoche è stato poi incluso in un mio libro), accaduto in una quarta. Unabambina, prima di dire qual era la cosa a cui non avrebbe mai rinunciatoal mondo, aveva chiesto ai compagni di non ridere.
Ecco chesubito si crea un religioso silenzio, animato più dal rispetto chedalla curiosità, credo.
«Il mio pupazzo dell’infanzia,con cui dormo tutte le notti» dice la bambina, e nel buttar fuori questasua piccola gigantesca verità le scappano fuori anche le lacrime. Unpupazzo dell’infanzia in quarta elementare, quando ci si senteormai troppo grandi per certe cose troppo da piccoli, è davvero unagrande rivelazione.

Dopodiché lemani si alzano a raffica:
"Grazie che hai avuto ilcoraggio di dire questa cosa. Io avrei tante cose da dire, ma non ne hoil coraggio."
"Sai che anch’io, di notte, quando il papànon c’è, vado a dormire nel lettone con la mamma?"
"A mefanno paura le ombre sull’armadio, è tutta colpa di quell’albero ingiardino."
"Anch’io ho un pupazzo, è una tigre. Il mio è unlupo. Il mio è un orsetto."

Alla fine la maestra miha ringraziato perché, mi spiega, i bambini hanno vissuto un momento dicosì grande intimità emotiva, di autenticità, come probabilmente nonè mai accaduto.
Alcuni genitori, una volta, invece, si sonorisentiti. E mi hanno fatto capire di non aver gradito: chissà che cosaavrebbero potuto spifferare i loro figli…
Un’altra volta,mi hanno ringraziato le ragazze di una quinta superiore: grazie a quelgioco erano riuscite a svelare ferite che bruciavano da un bel po’,a causa di relazioni difficili tra loro. Erano riuscite a parlarsi,e poi si erano sentite molto più leggére.
Ma io non avevo alcun merito, in quel gioco. Anzi, in quel giocoio scomparivo e, spesso, dopo un po’, nessuno si accorgeva nemmenopiù che fossi lì.
Qualche valore, forse, ce l’avevala storia, che però era già diventata altro da me, era di chi lavoleva, aveva preso una vita e una strada sue. Se non altro, forse,il valore piccolo di aver creato un’occasione, aperto una brecciada cui osservare, ascoltare.
Però mi rimaneva, sempre,una preoccupazione, che appesantiva il significato di questi momentistraordinari, eppure così ordinari.

Chequel tesoro di emozioni, storie, esperienze, rivelazioni non ci fossenessuno a raccoglierlo, a farlo risuonare, brillare, viaggiare. Che leparole scritte con forza dirompente, rivoluzionaria energia finisserochiuse dentro un cartellone e mai più ridette. Mai più seminate afar germogliare fiori. Ma lasciate a impolverarsi, e a ingiallirsi, inqualche sgabuzzino. E poi buttate via come robe vecchie, rinsecchite,e invece ancora, sempre, potenzialmente capaci di novità.
Mipareva una irripetibile opportunità pedagogica buttata via.
Mipareva che il gioco della leggerezza perdesse, così,un po’ del suo significato, soprattutto perché si faceva perderesignificato alle meraviglie che i bambini avevano saputo deporre in quelbaule clandestino. Le si copriva col silenzio, la dimenticanza, mentreerano cose degne di memoria. Memorabili.

E mirimaneva un interrogativo, anche. C’è bisogno che arrivi un estraneo anarrare una piccola storia, per aprire questi spazi di dialogo? Forse sì,certe volte. La routine è sempre in agguato.
Recentemente ho riproposto il gioco a un gruppo di bambini dellascuola dell’infanzia e di prima della scuola primaria. Giustoper sgomberare il campo dal timore che La leggerezzaperduta sia una storia troppo difficile per i più piccoli,i bambini, senza bisogno di spiegazioni (pesanti!),hanno capito al volo il meccanismo.

"Iomi terrei gli amici."
"Io l’amore della mamma."
"Io il mio trattore giocattolo."


Che libertà, nell’esprimere queste scelte.
E anzi mihanno rassicurato: la mia lanterna, ingombrante e piuttosto pesante,quella che uso la notte, quando scrivo, perché la fiamma viva chesfarfalla mi faccia compagnia, beh, tranquilla, quella te la puoitenere. Checché ne dica Celeste.
Lungo questa stradadi incontri, ho capito una cosa importante. Più che capito, forsel’ho ritrovata dentro di me, in quel sostrato profondo dove stavaad aspettare, insieme ad Astolfo, a Orlando e alla luna e ai sennidi chissà chi, forse anche al mio.

Ilnecessario e il superfluo non sono(sempre) categorie oggettive. Fatti salvi i bisogni primari (su qualisiano, poi, bisognerebbe aprire, anzi, spalancare un altro capitolo), ilnecessario e il superfluo hanno a che fare con la nostra identità. Ciòche è necessario per me, ciò che è superfluo per me.
Hoimparato a guardare con attenzione tutto ciò che (mi) succede ognigiorno, e ho visto che si sconvolgono immediatamente le scale di valori,e di priorità. E perfino il senso del rispetto ne beneficia.
Ricordo una festa, facevo la scuola media. Giocavamo al gioco dellabottiglia e mi fu regalata una gomma da cancellare a forma di cuore.
Un oggetto decisamente superfluo, e anche piuttosto brutto.
In un eccesso di romanticismo dovuto all’età, ho giurato in quelmomento che l’avrei regalata alla persona con cui avrei condiviso lavita.
Ho resistito molte volte alla tentazione di donarla,me la sono anche dimenticata per un po’. E alla fine l’horegalata a mio marito Massimiliano.
Per me quellagomma non è affatto un oggetto superfluo. Checché ne dicaCeleste.

Ricordate che,sabato, 30 novembre, alle ore 17.30, Alicia Baladan, CristinaBellemo e La leggerezza perduta vi aspettanoallo Spazio Libri Laboratorio la Cornice diTommaso Falzone. Letture di Antonella Capetti.

Tutte le immagini a corredo diquesto post, eccetto la copertina del libro, si riferisconoa schizzi, prove, disegni preparatori realizzati da Alicia Baladan, che ringraziamo peraverli resi disponibili, nel corso della progettazione di Laleggerezza perduta.