[di Alicia Baladan]
Illustrazione di Alicia Baladan.
Quando ho ricevuto il testo La bambina e l’armatura, l’ho subito trovato interessantissimo, ma mi ha intimorito per via dei significati che la mia lettura aveva fatto emergere riguardo all’armatura. Prima di confermare all’editore la mia collaborazione, ho voluto sentire il suo parere e quello di altre persone amiche. Mi interessava la loro prima impressione. In sostanza volevo liberarmi da quei valori simbolici che avevo dato alla storia, finendo per ingabbiarla. Contattare la scrittrice sarebbe stato opportuno; ma poi ho pensato che, forse, mi avrebbe svelato qualcosa che non volevo sapere. Penso che le parole custodiscano un segreto che dicono solo alle immagini e, viceversa, che nelle immagini si formi inaspettatamente qualcosa di non premeditato, risultato di tanti pensieri caduti nel bianco del foglio, che restituiscono una visione fino a quel momento inesistente.
Mentre in ogni modo cercavo di liberarmi dall’armatura, come fosse possibile raccontare una storia senza la sua parte più interessante, ho pensato a soluzioni bizzarre. Intuivo che la strada era un’altra, ma è stato necessario buttare su un taccuino tutte le idee. Nel tempo della storia, che è la contemporaneità, certe soluzioni sarebbero state difficili da gestire; inoltre, mi rendevo conto che incrementavano il valore simbolico dell’armatura, sovrapponendo altri significati. Ora guardo divertita questi appunti: riflettono la disperazione di una illustratrice in fuga dal nocciolo della questione.
Mi chiedevo: perché raccontare questa storia a una bambina o bambino? Era la domanda sbagliata. La domanda giusta era ed è: come leggerebbe questa storia un bambino o una bambina? Da qui in poi La bambina e l’armatura ha iniziato a prendere forma.
Un ricordo d’infanzia mi ha aiutato a visualizzare alcuni spazi e sensazioni. Quando non superavo il metro di altezza, come la bambina di questa storia, un giorno, a Montevideo, mi sono avventurata fino al confine del mio quartiere, ho attraversato la trafficata Avenida General Flores con il cuore in gola, per raggiungere la merceria di Julio, e acquistare un reggiseno in lycra a mia mamma, per il suo compleanno. Quei reggiseni sembravano delle vere e proprie armature, con molte cuciture contenitrici, i seni delle donne che li indossavano sfidavano la gravità: a punta, duri come il cemento, un davanzale da sostenere con orgoglio. Le loro proprietarie raramente guardavano a terra quando camminavano, avevano lo sguardo fiero verso l’orizzonte. Al Signor Julio, quando mi ha chiesto come avrei pagato, cosa a cui non avevo pensato, ho detto che sarebbe passata poi mia mamma a saldare. Ricordo di essere uscita da lì davvero contenta e soddisfatta, immaginando la felicità di mia madre. Ho attraversato la Avenida saltellando, come se fosse un tranquillo sentiero di campagna.
Il Signor Julio ora, nella storia con cui ero alle prese, avrebbe venduto armature al posto di bottoni, filo e biancheria. Il bancone della merceria di Montevideo era un monolite, solido e massiccio; la parete di fondo era tappezzata da scatole di varie misure, con bottoni di ogni genere esposti, simili a tanti occhi; ora nelle mie illustrazioni sarebbero diventati gli sguardi di antichi cavalieri.
Avevo a che fare con una protagonista molto decisa nei propri propositi: così come aveva scelto i vestiti, riflettevo, ora avrebbe scelto la sua nuova, straordinaria veste. Questa idea mi ha portato a immaginare un’armatura con gli stessi colori dei suoi abiti, perché senza dubbio il suo gusto si sarebbe manifestato nella nuova scelta.
L’altro accessorio da risolvere in questa storia era l’elmo.
«La bambina non sapeva decidersi, finché alla fine ne vide una proprio adatta: era un’armatura molto allegra, con un grande sorriso che le attraversava l’elmo e solo un attento osservatore avrebbe riconosciuto l’acciaio di cui era fatta.»
Volevo un elmo che non coprisse per intero la testa e il viso della bambina, perché per buona parte del libro, lo avrebbe indossato, quindi avrei dovuto semplicemente inventarlo. Invece ho finito per disegnarlo come l’elmo di Mambrino, quello che si mette sul capo Don Quijote de la Mancha, e non per i significati che ha in quella storia, ma semplicemente perché ha una mezzaluna che a me ricorda un sorriso.
Dopo avere risolto questo passaggio, ho iniziato a lavorare a questa storia con grande libertà. Le varie illustrazioni sono arrivate più fluide, come se la sfida fosse stata superata: ora dovevo solo proseguire e arrivare alla conclusione.
Il periodo in cui ho iniziato a lavorare a questo libro ha coinciso con il primo lockdown, un tempo drammatico e sospeso, ma anche intimo come non mai. Raffaella Pajalich, attraverso questa storia, mi ha donato il suo ritratto e quello di tante bambine, e io, inconsapevolmente, tornando a leggere e a riflettere su questa vicenda con occhio adulto, mi sono accorta di avere fatto il ritratto di mia madre.
Tutte le immagini di questo post sono tratte da schizzi e appunti visivi di Alicia Baladan.