Dopo il pezzo di Gioia Marchegiani che la scorsa settimana ha presentato l'ultimo volume della collana Piccoli naturalisti sservatori ovvero In un seme. Manuale per piccoli collezionisti di meraviglie, oggi tocca a Beti Piotto, agronoma esperta di biodiversità, spiegare che studi e che spierenze l'hanno portata a scrivere questo libro che in pochi giorni ha conquistato il favore dei lettori.
[di Beti Piotto]
La civiltà ebbe inizio quando per la prima volta
l’uomo scavò la terra e vi gettò un seme.
[Kahlil Gibran]
Il seme posto a germinare è stato l’inizio del nostro modo di vivere (fotografia di Renzo Torricelli).
Vero, verissimo: il seme posto a germinare è stato l’inizio della vita sedentaria, della pianificazione, della conservazione delle eccedenze, dell’urbanizzazione, dei mestieri, dell’industria e del commercio, del concetto di proprietà, delle classi sociali, della religione, della violenza organizzata. Di quello che chiamiamo civiltà. Nel bene e nel male il seme è all’origine di tutto ciò. Un’unica cosa da precisare: sono state le donne a gettare il primo seme, l’agricoltura nacque dalle donne, mentre gli uomini da cacciatori nomadi diventarono allevatori sedentari di bestiame.
Sono felice di aver scritto i testi di In un seme. Manuale per piccoli collezionisti di meraviglie. Come ricercatrice nel campo dei semi di specie spontanee avevo redatto rapporti tecnici destinati a studiosi, a specialisti di semi, a vivaisti; ovvero a soggetti adulti e addetti ai lavori. Mai prima d'ora mi era capitato di scrivere per i più piccoli, impegno rivelatosi più complesso di quanto immaginavo (diciamolo!). A trovare il linguaggio adatto mi ha aiutato l’esperienza di Gioia Marchegiani, magnifica illustratrice, efficace partner e figura complementare su tutti gli aspetti della costruzione del libro. Anche gli editori hanno limato, aggiustato, migliorato e, infine, ottimizzato il tutto, e di ciò sono molto grata.
Pagine da In un seme di Beti Piotto e Gioia Marchegiani (Topipittori, 2021).
Era chiaro, sin da quando ero piccola, che mi piacesse disegnare e colorare, ma a casa mia non era possibile alcuna spesa destinata a velleità artistiche: erano concessi soltanto percorsi finalizzati all’utilità con risultati concreti e immediati. Eppure il desiderio di usare mani e colori in me non si è addormentato, anzi, è rimasto sempre latente, come accade a ciò che dorme nei semi, e si è manifestato in lavori da autodidatta. Finalmente, il salto di qualità è stato l’approdo al gruppo coordinato da Gioia Marchegiani che nella sede del Parco dell’Appia Antica, a Roma, conduce corsi di acquerello en plein air. La prima cosa che mi ha chiesto Gioia è stata quella di rinnovare (anzi, di buttare) i miei pennelli e acquerelli perché non erano gli strumenti più adatti, e aveva ragione. In seguito l’interesse reciproco per le rispettive attività ha portato a scambi, conversazioni, osservazioni, telefonate che iniziavano con un «Senti un po’...» a cui seguivano mille domande e considerazioni. In natura questo fenomeno si chiama mutualismo: scambio reciproco fra specie diverse di azioni e reazioni. Qualcosa che somiglia molto a ciò che noi chiamiamo amicizia. Questo lavorìo del tutto casuale ha fatto da substrato al germogliare di In un seme.
Disegni nei miei quaderni della scuola primaria (Escuela Isidro Aliau, Villa Diego, Argentina).
Sono un’agronoma, ma non si può dire che abbia scelto la Facoltà di Agraria per vera vocazione. La passione, però, nacque subito dopo studiando col severo professore Agustín Vildoza della Facoltà di Agraria di Rosario (Argentina). Lui mi ha fatto amare l’impresa di Nikolaj Vavilov, l’agronomo sovietico che nel secolo scorso, tra gli anni Venti e Quaranta, a Leningrado, organizzò la prima banca del seme al mondo, tuttora attiva, perché aveva capito che la diversità era il motore della vita e la base del miglioramento genetico. La Russia dell’epoca usciva da una sorte di Medioevo e doveva essere sfamata, perciò il genio di Vavilov, un ricercatore dall’irresistibile carisma, formò un pool di studiosi esperti nella conservazione di quei semi che sarebbero serviti alla creazione di nuove varietà. Orgogliosi del loro lavoro, questi tecnici hanno impedito che la collezione di semi (in gran parte commestibili) fosse intaccata durante il terribile assedio nazista a Leningrado. Durante il blocco tedesco molti operatori morirono per denutrizione, ma la banca del seme rimase inviolata. Su questo fatto storico, che mi commuove per il suo significato potentissimo, sono stati scritti diversi romanzi non molto noti in Italia.
Grande è la diversità orticola e frutticola nel Mediterraneo (fotografa di L. Vietto).
Pagine da In un seme di Beti Piotto e Gioia Marchegiani (Topipittori, 2021).
Vavilov era uno spirito libero che in tempi di teorie di supremazia razziale se ne andava tranquillamente per congressi in Europa, affermando che non ci sono razze, che nessuna etnia è superiore all’altra perché tutti i gruppi umani sono stati ugualmente capaci di sviluppare l’agricoltura senza scambi culturali (i Maya vivevano della coltura del mais, ma niente sapevano delle altre civiltà). Mi piacerebbe molto che un giorno questa storia di lungimiranza, di uso pacifico della scienza e di grande senso del dovere possa essere raccontata anche ai più giovani. Meriterebbe senz’altro un film (da notare che Luca Zingaretti somiglia molto a Nikolaj Vavilov e potrebbe impersonarlo, perché no?). Purtroppo la sua vita finì tragicamente: venne imprigionato e lasciato morire nel 1943 per una miscela velenosa di invidie scientifiche personali e assurde questioni politiche. Ma questo sacrificio non fa che rendere la sua figura ancora più grande. Profonda ammirazione ho avuto anche per l’agronomo italiano Nazareno Strampelli (1886-1942) che con il suo lavoro intelligente e disinteressato quasi raddoppiò la produzione di grano dell’Italia che, come la Russia di Vavilov, doveva essere sfamata. A mo’ di bandiera mi sono scelta questi due campioni, veri e propri giganti, che con i semi ci sapevano davvero fare. «Se devi scegliere un modello da imitare, che sia strepitoso» ha detto Woody Allen.
Subito dopo la laurea in Argentina, grazie a una borsa di studio sono venuta a studiare in Italia negli istituti di ricerca dell’Ente Nazionale Cellulosa e Carta da cui, poi, fui assunta per lavorare al Centro di Sperimentazione di Roma. In questa sede, fondamentale per la mia pratica e formazione, ho iniziato a studiare la fisiologia dei semi delle specie forestali spontanee (quasi tutte sono spontanee, pochissime quelle coltivate). In diversi paesi del mondo ho potuto frequentare istituti di ricerca che conducevano studi specifici; ho fatto stage e ho visitato molti vivai forestali, dagli immensi vivai canadesi e svedesi a quelli ben più modesti del Pakistan e della Malesia.
I miei primi lavori sperimentali (1985) in un vivaio dell’Ente Nazionale Cellulosa e Carta a Palagonia (CT).
Tutto ciò per fare fronte a una situazione che si era venuta a creare in Italia: per un lungo periodo, e fino alla metà degli anni settanta, il rimboschimento, che troppo spesso impiegava conifere non autoctone, ha costituito il principale intervento attivo della politica forestale italiana, era finalizzato alla tutela e al riassetto idrogeologico del territorio, ma anche frequentemente a fini produttivi. L’istituzione delle Regioni a statuto ordinario (1970) prevedeva che le competenze in materia forestale in generale e di rimboschimenti in particolare fossero regionali. Questa novità istituzionale creò uno stallo in campo forestale, dovuto alle riorganizzazioni regionali. Ebbe anche l’effetto di far emergere la consapevolezza della necessità di eseguire i rimboschimenti, produttivi o protettivi che fossero, tenendo conto delle tante specie di alberi e arbusti autoctoni (la biodiversità!) che formano i boschi italiani. Oltretutto, si prese atto che queste specie nostre sono in grande maggioranza latifoglie e non conifere. In tale contesto si è inserito il mio lavoro e quello di tanti altri ricercatori, perché la fisiologia dei semi delle nostre latifoglie è spesso molto (ma molto) complessa. Mentre le specie di conifere impiegate nei rimboschimenti del passato erano facili da produrre in vivaio in quanto bastava seminare al momento giusto, i semi delle latifoglie mostrano spesso dormienze* primarie più o meno profonde che hanno bisogno di trattamenti per rimuovere le inibizioni e per consentire una germinazione abbastanza simultanea, in modo tale da facilitare la gestione in vivaio.
*La dormienza è lo stato fisiologico in cui si trova un seme che, pur in condizioni favorevoli alla germinazione, è incapace di germinare.
È chiaro che per arrivare alla produzione di un semenzale c’è bisogno di conoscere, al meno in parte, l’universo che lo circonda: l’impollinazione, la dispersione naturale del seme, la modalità della sua raccolta a fini produttivi, la conservazione del seme (non sempre possibile per lunghi periodi), i trattamenti che precedono la semina, la possibilità di conservare il seme di cui sono già stati rimossi gli inibitori della germinazione, la germinazione stessa. Una serie di problemi difficili che abbiamo affrontato, non sempre con successo, per ognuna delle tante nostre specie caratterizzate da esigenze assai diverse. Diversità che parla chiaro sulle formidabili strategie di sopravvivenza che la natura ha sviluppato in milioni di anni, e che abbiamo la responsabilità di conoscere e di considerare con rispetto e ammirazione.
Prove di germinabilità in condizioni controllate (fotografie di Beti Piotto).
Ecco, questi sono gli elementi, l’esperienza e gli studi su cui poggia In un seme. Mano nella mano con i semi (fil rouge del libro), volevamo raccontare il valore della diversità in modo semplice, ma senza perdere in precisione. In questi tempi minacciosi di riscaldamento globale abbiamo voluto comunicare che nella diversità si trovano le risorse per adattarci ai cambiamenti e consentire la naturale evoluzione della vita. Nella diversità, se guardata con attenzione, si trovano soluzioni pronte a problemi quotidiani.
Attraverso la scienza vorremmo creare coscienza.
La biodiversità: pagine tratte da In un seme, di Beti Piotto e Gioia Marchegiani (Topipittori, 2021).