[di Enrica Buccarella]
Definire musica e poesia “è un’operazione felicemente impossibile” ha affermato il maestro Luciano Berio nel suo libro Intervista sulla musica, anche perché ci sono tanti modi di intenderle “almeno quanti sono gli individui che vi si avvicinano”. Ho trovato in questa frase una conferma che, volendo parlare di poesia ai bambini della mia classe, offrire loro un’idea preconfezionata non era quello che desideravo e che la migliore cosa da fare, fosse provare a farglielo scoprire da soli “cosa è la poesia”. La fiducia nei bambini mi accompagna da sempre nel mio lavoro e anche questa volta confidavo nella loro capacità di cogliere, attraverso l’attività che avrei proposto, proprio quegli elementi ineffabili, misteriosi e primitivi che fanno della poesia un linguaggio speciale e a loro molto vicino.
Mi sono limitata quindi a offrire i mezzi, le parole, e invitare i bambini a riflettere sul loro significato e su come può realizzarsi quell’esprimersi poeticamente che a volte accade anche inconsapevolmente, nella vita di tutti i giorni, quando qualcuno pur non essendo poeta dice qualcosa di sorprendente o magari di sbagliato che, nella sua inaspettata incongruenza, mostra chiaramente un diverso significato, un punto di vista differente. Un po’ come intendeva Rodari con i suoi “duelli di parole” o “binomi fantastici”, la cui relazione si realizza però attraverso una logica ferrea e si compie nel “vedere” e nel “sentire”, nel trasferire significati da un oggetto a un altro e, infine, da chi scrive a chi legge. Ecco, forse la poesia, più di altri generi letterari, è trasferimento e sarà per questo che ho pensato che potesse essere un mezzo prezioso per trasmettere ai tanti bambini stranieri della mia classe non tanto i vocaboli della lingua italiana, ma il loro sentimento e il loro concetto, nei significati palesi e in quelli nascosti.
È stato Yu, un bambino cinese, a farmi riflettere su questo. Si conversava in classe sulle regole, cercando di chiarire cosa sono, a cosa servono, quanto è importante che siano riconosciute utili per essere pienamente rispettate e condivise.
«Alzare la mano quando si vuole parlare e si è in gruppo», hanno suggerito i bambini e ne hanno subito esposto l’utilità, riconosciuta da tutti, anche se non facile da rispettare.
Io li ho incalzati: «Sarebbe giusta secondo voi una regola che vieta l’ingresso in classe a chi porta le scarpe bianche? Oppure la coda?», indicando i capelli di Adelina.
Yu ha sgranato gli occhi e ha detto: «No maestra, non giusta, i bambini non hanno la coda!» E, dicendolo, ha proprio fatto il gesto di indicare una fantomatica coda sul suo sedere. Dopo un momento di sconcerto, abbiamo riso tanto per l’equivoco, tutti, ma non Yu, che ancora non capiva e continuava a guardarmi interdetto. E io mi sono sentita ingenua, anzi di più, inadeguata, e ho pensato con imbarazzo a quante volte parlo ai bambini dando per scontate le mie espressioni, senza chiedermi quanto possano capire e quale malinteso vi si possa celare.
Può sembrare poco pertinente, ma senza rendermene nemmeno conto, il primo lavoro che ho programmato, dopo questo episodio, è stato sulla poesia, con l’intento soprattutto di far “comporre” e scrivere poesie ai bambini. E ho capito solo in seguito da dove veniva quell’urgenza. 26 bambini e sei lingue diverse; era proprio da lì che dovevo cominciare: provare a trasformare gli errori in poesia, anzi, dire che la poesia nasce da quello che potrebbe essere considerato un errore, un azzardo, un malinteso, una trasposizione di significato e trasformare questa occasione in un incoraggiamento per tutti, anche per chi ancora non possiede tutti i mezzi linguistici, ma sicuramente quelli espressivi.
Siamo solo in seconda, ma io non mi accontento che i miei alunni cinesi, bengalesi, rumeni, filippini macedoni, sappiano dire: «Maestra posso andare in bagno?», e capire quando dico: «Prendete la penna e il quaderno.» Io voglio per loro tante parole, parole belle e diverse, intense e ricche di significati.
Ho introdotto il lavoro nel modo più distante da quello che solitamente si ritiene necessario per la scrittura di una poesia: estro e ispirazione, padronanza e consapevolezza espressiva. La nostra, infatti, sarebbe stata piuttosto una 'poesia per caso'. Non l’ho nemmeno presentato come un lavoro sulla poesia. Attingendo a una proposta di scrittura creativa dai laboratori di Roberto Pittarello, ho semplicemente proposto ai bambini di raccontare e descrivere un oggetto/soggetto della loro esperienza, seguendo uno schema per la raccolta delle parole.
Lo schema prevede tre colonne: Come è? Cosa fa? A cosa somiglia? (sembra come…) . Per ogni colonna si raccolgono un certo numero di parole, quelle che i bambini suggeriscono; si discutono, si valutano insieme, si scrivono. L’elemento scelto dai bambini è stato il mare, da poco esplorato e vissuto da tutti durante le vacanze estive, nonché soggetto dei nostri laboratori d’arte.
Durante la raccolta delle parole, ognuno ha proposto la sua, io le ho scritte su un grande foglio, i bambini le hanno trascritte sul quaderno. Prima colonna: Come è? Il mare è fresco, calmo, caldo, liscio, agitato… tutti sono riusciti a dire almeno una parola, e in questa prima fase non c’è stato bisogno di particolari spiegazioni. Quasi subito, al suggerimento di un aggettivo è seguita l’idea di dire anche il suo contrario, ottimo esercizio per approfondire i significati e, a volte, chiarirli: calmo/agitato, arrabbiato! Arrabbiato è stato suggerito da Ayan, in luogo di tempestoso… Se possiamo dire che il mare è calmo, secondo il significato che Ayan attribuisce a questa parola: essere buono, tranquillo… allora può essere anche arrabbiato. Il suo non era intento poetico, ma associazione logica in base alle sue conoscenze, però ha dato il via a una serie di considerazioni sul comportamento del mare che allora può essere anche dispettoso, furioso, oppure pigro, addormentato…
Nella colonna del Cosa fa? si è manifestata l’esigenza di spiegare alcune azioni suggerite dai bambini. Johan ha suggerito si allunga e ha fatto il gesto con le braccia e il corpo. Sulla sabbia, ha precisato. Abbiamo nitidamente visualizzato l’onda lunga che arriva allargandosi sul bagnasciuga.
Yu ha detto sputa, volendo dire schizza. È stato prontamente corretto… qualcuno si rifiutava categoricamente di accettare la parola sputa, ma poi Elisa ha detto, «Ma sì, sputa la schiuma delle onde, si arrabbia e sputa!» Yu era felice che la sua parola, pur non essendo “corretta”, avesse riscosso approvazione. Qualcuno ha proposto scuote le barche. Molti bambini non conoscevano il termine scuotere. Leia ha preso l’astuccio dei colori e muovendo energicamente le braccia ha mimato l’azione. Melina ha detto: «Allora il mare è come che ha le braccia!».
Siamo andati avanti così, a cercare gesti e immagini per spiegare a tutti i bambini il significato delle parole che ognuno suggeriva e, con sorpresa, riempire la terza colonna, quella del Sembra come…, è stato facilissimo perché a ogni caratteristica e azione i bambini avevano già collegato un’immagine, costruendo similitudini e metafore: se è calmo è come un bambino stanco di giocare, se è agitato è come un gigante arrabbiato, ospita i pesci come una casa immensa, i bambini che sono sulla riva sono i giocattoli del mare, lui li spinge e gli fa i dispetti, ha detto Melina, facendomi venire in mente il bellissimo libro L’onda di Suzy Lee, e Yu, tirando dentro e fuori il respiro, ha descritto il movimento del mare come una pancia che si alza e si abbassa. Abbiamo dato un nome a questa immagine: marea.
L’ultimo passaggio di questo lavoro, il più bello e sorprendente, che entusiasma i bambini proprio per il gioco che si fa anche con la mani è quello di ritagliare tutte le parole, o quelle che ci piacciono di più, dal grande foglio che ha scritto la maestra e provare a comporle, montando e smontando quelli che saranno poi i versi, accostando aggettivi e azioni alle similitudini e scoprendo che a volte una parola può anche restare lì, sola sola, in una riga, perché già dice tutto e lo dice in modo davvero speciale. Quando si arriva alla stesura finale del testo, si fermano definitivamente i versi, incollando le striscioline su cui sono scritte le parole e si compone la poesia. Durante questa operazione abbiamo anche scoperto che bastavano pochissime altre paroline per collegare le parti del testo, una congiunzione, una preposizione… perché la poesia si realizza anche in un’assenza di connettivi che rende l’espressione più intensa e favorisce la capacità di immaginare.
La piccola poesia nata per caso è piaciuta molto ai bambini e anche a me. Mi sarebbe piaciuta anche se fosse stata diversa nel risultato, perché quello che è stato davvero importante è il percorso, che ripeterò ancora, più volte. I bambini hanno letto con sorpresa i versi che hanno creato e le figure che sono nate dall’accostamento delle parole. Parole dette per caso, senza intenzione, raccolte da esperienze diverse. Le loro piccole immagini poetiche le hanno illuminate, rivelando non solo quello che le parole dicono, ma anche quello che potrebbero dire, favorendo una comprensione che va oltre… ed entra a far parte della competenza espressiva.
Edgar Morin nel suo libro Una testa ben fatta dice a proposito della comprensione: «Letteratura, poesia e cinema devono essere considerate non solamente, né principalmente, come oggetti d’analisi grammaticale, sintattica o semiotica, ma come scuole di vita. Scuole della lingua, che rivela tutta la sua qualità e possibilità… scuole della qualità poetica della vita e quindi dell’emozione estetica e dello stupore, scuole della scoperta di sé… e tutte queste scuole dovrebbero convergere per divenire scuole di comprensione. Autentica, umana… che costituisce senza dubbio un’esigenza chiave dei nostri tempi… Spiegare non basta a comprendere. C’è comprensione umana quando sentiamo e concepiamo gli umani come soggetti…»
Con i miei “soggetti” questo nuovo anno scolastico l’ho cominciato da qui, dalla scoperta e dallo stupore delle parole e di una poesia che si costruisce insieme. E questa operazione funziona meglio proprio se nel gruppo ci sono bambini stranieri, quelli che non conoscendo bene la lingua, a volte per dire una cosa ne dicono un’altra, cercando di avvicinarsi il più possibile alla parola che cercano, ma ancora non possiedono, aggirandola e definendone i contorni, raccontandone il sentimento più che l’oggetto, esprimendone l’immagine. La pancia del mare, le sue braccia d’acqua, le onde che si inseguono come la scrittura in corsivo che stiamo imparando.
Poi, siccome sono puntigliosa e indagare le parole non mi basta mai, ho pensato che dovevamo a questo punto chiarire il significato proprio della parola poesia, almeno provarci, ognuno con i suoi mezzi.
Poesia fa parte del vocabolario dei bambini fin da piccoli. Nella scuola dell’infanzia si insegnano le poesie. Per i bambini un insieme di parole che ha una musicalità, spesso rappresentata dalla rima, è una poesia. Quindi le poesie corrispondono spesso alle filastrocche, ai giochi di parole che rendono facile anche l’imparare a memoria e noi adulti continuiamo a proporgliele così, dicendo poesia come diciamo coda. Con la stessa leggerezza. Ed è per questo che sono convinta che l’attenzione che i bambini stranieri mi costringono a mettere nella mia comunicazione, giovi moltissimo a quelli italiani.
Che cos’è la poesia? A che cosa serve, come si fa a riconoscerla? Le risposte che i bambini mi hanno dato riguardano indistintamente il leggere o lo scrivere una poesia, giacché prima che lettori sono stati autori di quel piccolo testo che ora è appeso in classe e intorno a cui si raccolgono spontaneamente per un gioco di continua lettura e riscoperta. Le ho trascritte fedelmente così come tutta la conversazione perché, dopo il malinteso con Yu, sono ancora più sinceramente interessata a sapere quanto le mie proposte tengano conto della loro esperienza.
Maestra – Che cos’è la poesia?
Leia – È un tipo di storia.
Denis – È una storiella corta.
Anamaria – Come una filastrocca.
Emma – Tipo una canzone ma senza la musica.
Melina – Una musica che si legge
Sara Marianna – Sono paroline che si mettono insieme.
Adelina – Delle paroline che si spezzano e che ritornano. (si riferisce al nostro lavoro di tagliare e comporre i versi)
Yu – Anche quando non c’è il punto si va giù. (intende a capo del rigo)
Elisa – La poesia fa rima.
Enea – Si forma una frase usando l’immaginazione, prima devi pensare…
Sara S. – Quando sei rilassato pensi la cosa che ti piace e poi la scrivi…
Denis – Se vuoi dire una cosa…
Emma – Nella poesia sono giuste le cose dell’immaginazione, perché nell’immaginazione tutto può succedere, anche le cose sbagliate.
Rebecca G. – La poesia è come un sogno.
Rebecca V. – Le poesie possono diventare sogni perché ci fanno vedere delle immagini come nei sogni.
Elisa – Quando scriviamo una poesia possiamo sognare a occhi aperti e scrivere quello che vediamo.
Maestra – A cosa serve la poesia?
Adelina – Per divertirsi.
Enea. – A fare capire di più con le parole. Tu vedi nella tua testa e capisci.
Elisa – Per liberare l’immaginazione.
Maestra – Perché? L’immaginazione ha bisogno di essere liberata? È in prigione?
Sara S. – Un bambino pensa, ma non può dire liberamente le cose della sua immaginazione.
Rebecca V. – L’immaginazione dei bambini è libera solo nella testa e fa quello che vuole.
Emma – La gente si spaventa dell’immaginazione.
Matteo – Mentre io immagino, mia sorella arriva e mi spaventa.
Elisa – La sveglia che suona fa ritornare l’immaginazione nella prigione.
Hu Chen Rui – Anche la mamma che ti viene a chiamare e dice: «Smettila e aiutami.».
Emma – Ma il cervello decide lui quando immaginare.
PS Hanno detto tutto alzando la mano e parlando uno alla volta, secondo la regola.