Ci sono alcune fortunate persone dotate di una dose di talento quasi sproporzionata e percò davvero invidiabile. Alicia Baladan è una di queste: scrive e disegna, esercitando benissimo entrambe le cose. In catalogo abbiamo due testi di cui è autrice: Piccolo grande Uruguay che è la sua autobiografia pubblicata negli Anni in tasca, nel 2011, e Una storia guaranì, un fascinoso albo che racconta una storia di iniziazione. Oggi pubblichiamo un brano del primo titolo con il quale festeggiamo questo ennesimo martedì dei dieci anni della nostra collana.
In alcuni periodi dell’anno, quella che inizialmente era stata camera mia e di mia madre, veniva data in affitto a degli studenti.
In primavera arrivò una ragazza che ricordo come la più studiosa fra tutti coloro che abitarono la “stanza degli studenti”. Raramente usciva e quando lasciava la porta accostata, la vedevamo sempre china sui libri. Qualche volta, se si accorgeva che la spiavamo, ci invitava a entrare e, parlando a bassa voce, anche se in tutta la casa non c’era nessuno che dormisse, ci mostrava strani disegni. Un giorno Claudia le chiese perché parlasse sempre a voce bassa e lei ci stupì, rispondendo che era per ascoltare il suono delle cose.
«Cioè? Quali cose?» chiedemmo.
«Per esempio il tavolo», rispose.
Noi provammo a restare un pochino in silenzio, ma non sentimmo nulla. Allora lei ci spiegò che non si trattava di un vero e proprio suono: lei sapeva per certo che all’interno di ogni cosa c’era un gran movimento e sperava un giorno di sentirne il rumore.
Insomma, quella ragazza ci raccontava strane cose. Noi non capivamo nulla, ma le sue storie erano affascinanti. Stando a quel che diceva, la sedia, il tavolo, il suo quaderno e ogni altro oggetto in quella stanza, e non solo lì, anche quando apparivano immobili, in realtà si muovevano. Ci spiegò che la nostra vista non era così acuta da percepire questo movimento, ma che se avessimo avuto un microscopio super potente, avremmo visto che all’interno di ogni cosa giravano delle palline, però non disordinatamente, con dei ritmi precisi.
Illustrazioni di Alicia Baladan per Piccolo grande Uruguay.
Spesso, sul più bello della spiegazione, si interrompeva e ci accompagnava alla porta, affermando che avrebbe continuato il giorno dopo. In questi casi, trascorrevamo il resto della giornata in attesa di conoscere il seguito, pieni di dubbi, parlando per ore di quello che ci aveva detto e sparando le ipotesi più azzardate.
Claudia sosteneva che la studentessa era una specie di genio, Daniel sospettava che fosse pazza. Io ancora oggi ricordo la sua voce delicata e accogliente che avrei ascoltato per ore, anche senza capire quel che diceva.
Un giorno, la studentessa ci disegnò quello che ci stava spiegando e allora tutto mi fu più chiaro. Disegnò un sole con intorno due piccoli mondi e un cerchio; indicò il tragitto che i due piccoli mondi compivano intorno a quel sole. Ci informò che i due mondi non smettevano mai di girare, un po’ come la terra in cui viviamo, che gira senza sosta intorno al sole. Claudia riconobbe il disegno e disse che era un “sistema solare”: l’aveva imparato a scuola, e aggiunse che quando c’erano più sistemi che giravano, allora quello prendeva il nome di “universo”.
Insomma, stando ai racconti della studentessa, pareva che ogni cosa, persino le pietre, internamente, fosse composta da migliaia di piccoli universi in continuo movimento. Dunque, tutto quello che vedevamo era il risultato di una continua trasformazione e, soprattutto, era solo la forma apparente delle cose.
Per noi questa scoperta fu così incredibile da modificare completamente il nostro modo di guardare le cose e, di conseguenza, i nostri giochi. Per esempio, staccare la testa a una bambola significava separare gli universi, andando a creare un incredibile caos. Altre conseguenze furono che da quel momento tutto cambiò nome (per esempio, un tavolo era “universo 301”) e che le pietre, per la prima volta, divennero oggetto delle nostre osservazioni, perché fra tutte le cose ci sembravano quelle che nascondevano meglio la loro vera natura. Per un lungo periodo soggiacemmo al fascino degli universi, delle sfere, dei mondi, anche perché Claudia ci teneva informati sui suoi studi; per una strana coincidenza, mentre la sua maestra descriveva universi giganti, la nostra studentessa raccontava di universi identici, ma piccolissimi. A confermarci questo straordinario modo di guardare il mondo, fu un libro che i grandi ci regalarono e che ci appassionò moltissimo: Il piccolo principe. Fin dalla prime pagine, capimmo che la studentessa ospite in casa nostra non era l’unica a sostenere che dietro a ciò che si vedeva si nascondevano altri mondi. Lo scrittore di quel libro raccontava di aver disegnato un cappello, che in realtà subito si era rivelato un boa che aveva ingoiato un elefante. Noi, poi, sapevamo che quell’elefante dentro di sé aveva un vorticare di piccoli universi. Per molto tempo, rimasi convinta che i mondi del Piccolo Principe, protagonista di quel libro, non fossero pianeti sospesi nello spazio, bensì pianeti di qualche universo piccolissimo, forse anche contenuti nel libro stesso.
La studentessa rimase da noi una stagione, poi, purtroppo, un giorno ci salutò, lasciando a ognuno un disegno. Prima che se ne andasse le chiesi di spiegarmi una cosa che non mi era ancora chiara: quel fatto di sentire il suono del tavolo. Lei mi disse che se fossi rimasta in perfetto silenzio in una stanza, isolata da qualsiasi rumore, alla fine un oggetto si sarebbe mosso, non per una causa esterna, o per aver ricevuto un colpo, ma per gli universi che aveva dentro. Dunque non c’era da spaventarsi: solo da sapere che il silenzio assoluto non esiste.