Una volta, tanto tanto tempo fa, c’era un bambino svizzero, figlio di un maestro d’arte, che si interessava di pittura e di scienze naturali. Ma più di tutto gli piacevano le macchie. Sì, proprio le macchie. Quelle di inchiostro. Quelle che se le facevi – anche quando sono andato a scuola io - la maestra ti metteva la nota sul quaderno e dovevi farla firmare dalla mamma. E quel bambino, con le macchie, ci faceva un gioco bellissimo. Si chiamava klecksografia.
Quel gioco meraviglioso era stato inventato da un poeta tedesco, Justinus Kerner, che faceva un sacco di macchie quando scriveva, perché ci vedeva poco e sempre meno. E facendo macchie si accorse che avevano una forma. E piegando il foglio costruì nuove forme. E su quelle forme scrisse poesie. E le poesie, con le loro brave macchie, erano così divertenti che decise di farne un libro, che chiamo Klecksographien, che fu poi pubblicato nel 1890, venticinque anni dopo la sua morte (del quale riproduciamo alcune immagini qui sopra e che potete sfogliare qui).
Si sa che i libri viaggiano molto e nei luoghi più impensati. Così quel libro tedesco finì non si sa come in mano a Ruth McEnery Stuart e Albert Bigelow Paine, due scrittori americani che pensarono di poter trasformare l’inusitata idea di Kerner in un gioco. E così nacquero i Gobolinks: i folletti dell’inchiostro. (Il libro può essere sfogliato nella sua interezza qui).
Il gioco funziona così: ci si divide in due squadre, quella dei giocatori e quella dei giudici; i giocatori hanno cinque minuti di tempo per fare una macchia su un foglio e scrivere una poesia ispirata all’immagine creata dalla macchia; i giudici scelgono le poesie migliori e si scambiano le parti. Alla fine, vince chi ha fatto la macchia-poesia più bella.
Qualche anno dopo, nel 1907, John Prosper Carmel e Raymond Carter pubblicarono con Paul Elder & Company Blottentots and How to Make Them. Evidentemente il gioco aveva preso piede e cominciavano a fiorire le copie del progetto originario. (Una digitalizzazione, purtroppo in bianco e nero, è consultabile qui).
Tutto questo divertimento si fonda sulla apofenia, cioè – secondo la definizione che ne dà Wikipedia - la tendenza del cervello umano a cercare e riconoscere schemi e connessioni in dati casuali: una «immotivata visione di connessioni» accompagnata da una «anormale significatività». È, in pratica, una distorsione soggettiva nell’osservatore. In parole più semplici: un cervello normale cerca di trovare una interpretazione narrativa a qualsiasi cosa, per soddisfare una compulsione innata a raccontare storie, a cercare un’anima nelle cose, a dare un senso e un significato anche a ciò che apparentemente non ce l’ha.
Ma torniamo al principio della nostra storia. Quel bambino svizzero si chiamava Hermann Rorschach. Si laureò in medicina e si specializzò in psichiatria. Ma continuò a giocare con le macchie. Solo, un po’ più seriamente.