[di Rossella Caso]
La rabbia che può coglierlo in certi momenti, quando la malattia e quindi le ragioni del ricovero risultano incomprensibili e che può essere rivolta al personale medico e infermieristico, ma anche ai genitori, viene ben raccontata da Roberto, piccolo protagonista di Che rabbia!, di Mireille D’Allancé (Babalibri 2000), che punito da suo padre perché non ha voluto mangiare gli spinaci che lui ha preparato per cena, chiuso nella sua stanza «sente una Cosa terribile che sale…sale, sale, fino a quando… RRRRRRRHAA, esce fuori all’improvviso». È la sua rabbia che cresce piano piano, sempre di più, fino ad assumere le sembianze di un mostro rosso che travolge con il suo impeto ogni cosa: la coperta del letto, i cuscini, e poi il comodino e la lampada, e gli scaffali con tutti i libri. Lo stupore di Roberto cresce paralizzandolo fino a quando la Cosa non punta il suo baule di giocattoli: «Aspetta, quello no! […] Hai capito? Smettila!» prova a intimarle, ma è troppo tardi, perché la Cosa ha già rotto il suo camion preferito. «Che cosa ti ha fatto, quel brutto bestione? Non ti preoccupare, ti aggiusterò io. E tu, vattene via, cattivo!». Da quel momento in poi la Cosa inizia a diventare sempre più piccola, sempre di più mentre rimette a posto la lampada, poi il cuscino, poi il suo libro preferito, fino a che, ormai pacificato con le proprie emozioni negative, non riesce a chiuderla dentro una scatola per tornare dal suo papà, che sicuramente ancora lo aspetta per cena, con quella richiesta che sa tanto di infanzia che è: «Papà, è rimasto un po’ di dolce?».
Altrettanto importante è il sentimento dell’amicizia, che gli albi mostrano come possa diventare per bambini e bambine, specialmente se piccoli e fragilicome spesso sono gli eroi delle fiabe e delle storie, un legame da cuitrarre la forza per superare i propri limiti e le proprie paure e peraccettarsi nel proprio essere “differenti”, come accade a Martino, il leone che non riesce a saltare e a ruggire come un “vero leone”e che un giorno per questo viene cacciato dal circo (Il veroleone di Matteo Gubellini, Bohem Press 2009). Sarà Arianna, una bambina a suo modo anche lei speciale, a capire i suoi sogni e apermettergli di realizzarli. L’albo si chiude con l’immagine di un Martino con il naso rosso, immenso “leone-pagliaccio” per il divertimento dei bambini e delle bambine, felice perché anche grazie al sostegno di Arianna è riuscito a realizzare se stesso, anche nella propria “diversità”.
In Viola non è rossa, di Lorenza Farina e Marina Marcolin (Kite 2008),Viola è una bambina timidissima che arrossisce ad ogni occasione, che all’interrogazione non riesce a parlare e che ogni tanto inciampa negli zaini dei compagni, tanto da venire continuamente derisa da loro che la apostrofano: «Viola è rossa! Viola è rossa!». L’amicizia con Nerina,una bambina altrettanto timida e maldestra come lei, che non arrossisce ma diventa bianca ad ogni occasione, che all’interrogazione non riesce aparlare e che come prima cosa che fa al suo ingresso nella classe inciampa nello zaino di un compagno, tanto che tutti la apostrofano: «Nerina èbianca! Nerina è bianca!» la fa sentire meno sola. Quell’incontro fasentire entrambe meno sole, piccole e fragili. Così: «Quando un giorno la maestra chiede a un bambino: “chi è il tuo amico più caro?” Viola con un filo di voce risponde tutta emozionata: “Nerina”. ENerina ancor più sottovoce risponde: “Viola”. Allora le due bambine si guardano e a poco a poco le loro guance si colorano di rosa. “Adesso siamo uguali” pensano ridendo con gli occhi. Nerinanon è più bianca. Viola non è più rossa». Ognuna di loro, però,continua ad essere speciale a modo suo.
Così in Il puzzle di Matteo di Luigi Dal Cin e Chiara Carrer (Kite 2014), Maria a soli sei anni scopre tutta la ricchezza della diversità di Matteo, suo compagno di classe affetto dalla sindrome di Prader Willi e quando lo aiuta a completare il puzzle trovandogli l’ultimo pezzo da incastrare scopre che da Matteo ha tanto da imparare, prima di tutto la forza e il coraggio con cui affronta le difficoltà legate alla sua malattia: «“Sei stato coraggioso Matteo – disse Maria – e io ti voglio sempre più bene!”. Matteo la scrutò attraverso gli occhiali: “Dai Maria, esagerata: solo perché ho finito un puzzle?”». No, semplicemente perché Matteo è diverso. Il sentimento di amicizia e di affetto che Maria nutre nei confronti di Matteo può essere ben spiegato con le parole della piccola Viola protagonista di Mia sorella è un quadrifoglio di Beatrice Masini e Stephan Junacović (Carthusia 2012).
All’ennesimo litigio con il compagno di classe Martino che non sapendo più come prenderla in giro le ricorda di avere una sorella disabile e pensando di rivolgerle un insulto le dice: «Tua sorella non è mica normale», Viola risponde:
E comunque ha ragione. Mia sorella non è normale. Lei è speciale. Essere normali vuol dire essere uguali:come i fili d’erba, come i trifogli di un prato. Mia sorella invece è un quadrifoglio. I quadrifogli sono rari e sono diversi. Sono diversi perché sono rari. Tutti vorrebbero trovarne uno, ma ci riescono in pochi. I quadrifogli portano fortuna. Noi abbiamo la fortuna di averne uno tutto nostro: Mimosa, il quadrifoglio. Mi piace pensare che il mondo sia un posto dove tutti siamo speciali. Io sono speciale a fare i disegni, per esempio. Il papà è speciale quando fa la pizza. La mamma è speciale quando legge le storie. Mimosa è speciale a sorridere. È la cosa che le viene meglio. Siamo tutti diversi e siamo tutti speciali. In un prato c’è posto per tutto: i quadrifogli, le farfalle, le coccinelle, le formiche, i fiori. Anche nel mondo dev’essere così. […] Quando guardo Mimosa che gioca dasola con un pupazzetto e ride, allora non penso che è un quadrifoglio, e nemmeno che è diversa o speciale o quelle cose lì. Penso che è mia sorella e basta.
Un messaggio che si avvicina molto a quello veicolato da un altro albo illustrato: Insieme più speciali (Carthusia 2014). La storia sembra rubata ad un libro di favole africane, pur essendo stata scritta e illustrata da due autrici italiane, Beatrice Masini e Simona Beghelli: dopo una grande festa nella foresta un giaguaro e una lucertola sono stanchi e assaliti da mille pensieri. Non sono contenti perché hanno perso qualcosa: il giaguaro perché ha perso il suo pelo e con il pelo le macchie, «e se continua così non sarò più un giaguaro. […] Diventerò un grosso gatto giallo. Un gatto giallo tutto spelacchiato. E non mi piace diventare un’altra cosa. Tutto questo mi fa paura. Per questo mi sono travestito da coniglio, perché i conigli hanno sempre paura». La lucertola, invece, è triste perché non ha la coda e sa che non le ricrescerà come al solito. «Mi vergogno tanto che vorrei volare via. Potessiavere le ali di una farfalla…». Insieme il gufo, la scimmia, il ragno e tutti gli altri animali, guidati nella loro riflessione dal gufo, riusciranno a superare le loro paure e scopriranno che ciascuno è speciale a modo suo: il giaguaro perché è rapido ed elegante,l a lucertola perché le basta un raggio di sole per essere felice, il coniglio perché lui soltanto sa correre velocissimo per i prati. Insieme penseranno ad una possibile soluzione ai problemi del giaguaro e della lucertola: immaginazione, colori e polverine magiche “alla zampa” proveranno a fabbricare una coda per la lucertola e a dipingere delle macchie sul pelo del giaguaro. Quando alla fine della festa torneranno a casa tutti avranno imparato qualcosa di molto importante: che insieme si è «unici, speciali. E forti. Avere le macchie, non averle più, averle ancora, quasi come prima. Restare senza coda e ritrovarla. Non c’era niente di impossibile».
Lo sanno bene anche I cinque Malfatti (Topipittori 2014), cinque “cosi” Malfatti.
Il primo era bucato. Quattro grossi buchi in mezzo alla pancia. Il secondo era piegato in due, come una lettera da spedire. Il terzo era molle, sempre stanco, addormentato. Il quarto era capovolto. Naso in giù e gambe in su. E il quinto… lasciamo perdere. Il quinto era sbagliato dalla testa ai piedi. Un ammasso di stranezze. Una catastrofe. Non riuscivano a concludere niente nella vita né avevano voglia di fare granché. Abitavano in una grande casa sbilenca che sarebbe potuta crollare da un momento all’altro. Discutevano spesso su chi, fra loro, fosse il più malfatto. Questo li divertiva molto.
Un giorno arriva dalle loro parti un “tipo perfetto” che rimane stupito di fronte a quella che a detta sua è la loro “nullità” ma non riesce a trovare il modo di replicare alla perfezione che nasce dall’unione delle loro rispettive imperfezioni:
«Sarà», disse il bucato, «però io non mi arrabbio mai. La rabbia mi passa attraverso». «Mah!», disse il piegato, «io conservo tutti i ricordi qui, nelle mie pieghe». «BZZ», fece il molle che, nel frattempo, era crollato addormentato. «EH!» disse il capovolto, «io vedo le cose che gli altri non vedono». «AHAAA!» rise lo sbagliato, «io, che sono tutto sbagliato, quando mi riesce qualcosa si fa festa!» E dandosi pacche sulle spalle se ne andarono, più contenti che mai. Mentre il perfetto resto lì, solo, a bocca aperta. Come un vero, perfetto stupido.
Insieme si può fare molto, anche affrontare i mostri. In Niente ferma Gufetta! di Gwendoline Raissone Cati Baur (Babalibri 2014), Gufetta e Porcello, ilsuo migliore amico, ne affrontano uno perennemente affamato mentresono al parco a prendere il gelato, o a giocare con un passeggino abbandonato, o a fare un picnic a base di patatine e senape nella foresta. Gufetta e Porcello insieme sono “più speciali”, anchequando finiscono nella pancia di un mostro.
Anche i bambini che condividono, come Marco e Asha protagonisti di Marco e Asha vanno in ospedale!, di Marisa Bonomi e Cristina Pietta (Sinnos 2012), una camera di degenza o i giochi in ludoteca possono sentirsi così, “insieme più speciali” e semplicemente scambiandosi pensieri sulla propria malattia e sul mondo fuori, letture, giochi, emozioni. Ernest ha l’influenza (Gallucci 2013), è il quarto albo della serie dedicata dall’autrice belga Gabrielle Vincent a Ernest e Celestine, un orso e una topolina diventati amici sfidando il pregiudizio delle loro rispettive comunità.
In questo episodio Ernest si ammala e Celestine deve prendersi cura di lui. Il medicoprova a dire alla topolina che deve lasciarlo da solo, perché laterapia consiste in digiuno, tè o camomilla e riposo assoluto, maCelestine si rifiuta risolutamente di farlo: «Nemmeno per sogno,ci penserò io a curare Ernest!», protesta. E la topolina svolge conscrupolo i suoi compiti di cura: prepara all’orso le bevande calde,gli rimbocca le coperte, gli misura la temperatura. Quando però a uncerto punto Ernest le dice: «Mi annoio, Celestine», la topolina capisceche forse l’orso ha bisogno di ben altri tipi di cure: improvvisa unpiccolo spettacolo di travestimenti ed Ernest ride, ride tantissimo. Eil tempo, che non passava mai, passa anche troppo velocemente. Ernestguarisce.
Analogo il messaggio dellastoria di Leone ed Uccellino di Marianne Dubuc(Orecchio acerbo 2014) Leone sta lavorando nell’orto quando senteun rumore: è un uccellino caduto dal cielo. Gli basta guardare lasua ala ferita per rendersi conto che ha bisogno di lui. Sfidandoqualunque legge “naturale” e qualunque istinto che lo avrebbeportato a divorarlo, Leone non solo fascia l’ala ferita, ma portail piccolo con sé, in casa, al caldo. E insieme, un giorno dopol’altro, tra uscite nella neve, battute di pesca e letture davantial camino acceso, scorre l’inverno: «Un inverno tutto bianco. Tuttofreddo. Ma il freddo, in due, non è poi così male». La cura di Leoneè una cura rivolta non solo al corpo, ma anche alla vita stessa delpiccolo uccello: Leone non gli impedirà, a primavera, di unirsi aisuoi simili sapendo che la vera cura è quella che porta tanto chi laeroga quanto chi la riceve a una piena realizzazione di sé. E poi conl’inverno Uccellino tornerà e le giornate di Leone non saranno piùvuote. Come a dire che le malattie non passano solo con le terapie,ma anche attraverso la vicinanza di una persona cara che abbia tempoda dedicare.