Una parola del corpo che mette le ali o della poesia aerea

Davvero salutare l'anno di scuola in compagnia di persone amiche che sanno stare con questa grazia insieme a bambine e bambini, ci pare il miglior modo di avviarci verso la nostra pausa estiva. Grazie Paolo Colombo per questa bellissima riflessione su infanzia e poesia che dedichiamo a Giulia Niccolai, poeta, fotografa, viaggiatrice e scrittrice, di cui qui, per coincidenza (?) si adombra la presenza attraverso un suo bellissimo libro. Giulia Niccolai, che di voli, parole che mettono le ali e stormi poetici aveva grande esperienza, è mancata ieri (la trovate raccontata da Massimiliano Tappari in un bell'articolo uscito su Andersen).

[di Paolo Colombo]

La scuola è finita, si scrivono relazioni, si fa ordine, viene voglia di raccontare un po’ cosa si è fatto. E di quello che abbiamo fatto mi è piaciuta soprattutto la Poesia Aerea.

Con bambini e ragazzi di scuola primaria e di prima media abbiamo declinato in modo nuovo la vecchia dicitura “posta aerea”, creando poesie alate da regalare a chiunque le trovasse.

Un video di Youtube prometteva «i migliori aeroplanini del mondo», e devo dire che non ha deluso; è stato bello porre cura e attenzione nella piegatura della carta per avere uno stormo poetico efficiente.

 

Poi ciascuno ha composto un breve testo, che poteva essere un piccolo autoritratto, una nuova interpretazione del detto Verba volant o anche solo una poesia attorno a una parola interessante o importante per sé.

Così, pescando qua e là:

Le parole

a volte sono

buone come

un anburger

a volte sono

peggio delle

carote alcune volte

sono peggio

di una minigan

due mila.

Tu che hai ricevuto questa

formula

sei destinato

a un mondo

segreto.

L’anima, cos’è l’anima? L’anima è

qualcosa che vola? Non lo so. Ma io so

che l’anima abbandona il corpo, e dove va

a finire non lo sa nessuno. Può essere

una parola del corpo che mette le ali e se

ne va. Sempre, come prima, nessuno lo

sa dove va, l’anima, va

da per tutto.

Io sono una finestra mi aprono e mi chiudono

Io sono la luna che illumina la notte

I need a word.

Everybody needs words.

They need them

to speak.

You need a word

when you’re happy

and when you’re sad.

We need words!

Words!

Le parole volano

possono atterrare

ovunque nel

tuo orecchio

che è come

un aeroporto

pieno di via vai

di parole.

Se io fossi uno scherzo farei ridere le persone tristi

La mia lingua come il mare.

Sono sincero come il silenzio.

Il mio cuore come la sabbia.

Io sono una bambina dagli occhi di immaginazione

Io sono Amir

Io sono lione

Io sono cane

Io sono albero

Io sono topo

Io sono giniziano

Io sono italiano.

Apro una piccola parentesi di disordinate considerazioni. È la prima volta che mi ritrovo immerso così a mollo nella poesia infantile e di fronte alla sua ricchezza mi chiedo fino a che punto noi adulti – genitori, educatori, insegnanti, terapeuti, lettori, io per primo – dedichiamo all’esegesi dei testi dei bambini il tempo e l’impegno che meriterebbero. Come già mi è capitato leggendo il libro-faro Ma dove sono le parole? a cura della Candiani e Andrea Cirolla, sono rimasto sbalordito dalla disponibilità con cui i bambini, di fronte alla richiesta di un semi-sconosciuto, riversano sulla carta i grandi temi, ipotesi metafisiche, lutti gravissimi, domande che scandagliano la propria identità e il mondo che li circonda. Tante di queste poesie me le porto nell’orecchio da mesi, eppure ancora, rileggendole adesso, le trovo piene di illuminazioni, di tracce da seguire.

L’oceano

è un deserto

di pensieri

immenso

come una maratona

però dopo finisce

Questo oceano che è un deserto / di pensieri, per esempio, mi ha molto colpito fin da subito: l’autore prima accosta due vastità, una equorea e una sabbiosa, una di onde e una di dune, e poi sorprendentemente le trasforma in luoghi mentali, in paesaggi interiori desolati e immensi, di estrema solitudine, attraverso cui si corre come un biblico maratoneta che non vede l’ora di uscirne. Forse potremmo leggerlo come un racconto esatto di ciò che tanti di noi hanno vissuto in questi mesi. Oppure lo scrittore del primo testo riportato, che riconosce nella poesia una formula magica per entrare “in un mondo segreto”: è un’ipotesi che ha una lunga tradizione letteraria, si potrebbero citare Rilke e la Cvetaeva per esempio, però il poeta-bambino ci è arrivato per una via inedita, passando per le carote, gli anburger e una misteriosa minigan duemila (che poi sarà “minigun”, un tipo di mitragliatrice, mi pare di aver capito).  A questo proposito, a riguardo cioè del senso di estraneità che si prova ogni tanto davanti alle loro parole: mi sembra ci sia sempre qualcosa di sfuggente nella poesia dei bambini, a ricordarci che comunque quello che loro abitano è un tempo altro dal nostro, un tempo che in parte ci portiamo ancora dentro, ma con cui ormai dialoghiamo dal di fuori. E in fondo a loro non piace che gli adulti vadano a ficcare troppo il naso nei loro affari. Mi è capitato di pensare che gli errori ortografici, i riferimenti a cose per noi astruse, l’imperfezione formale di questi testi siano forse allora come dei trucchi che adottano per sviarci, per distoglierci, per farci procedere frettolosamente oltre, magari persino con un senso di superiorità, e conservare almeno in parte i propri segreti. Fine della parentesi nelle intenzioni breve).

Una volta completati i testi, abbiamo affrancato gli aeroplani con i residuati di una raccolta di francobolli di quando avevo la loro età e che, per fortuna, non ho mai sistemato. (Tra l’altro i più ignoravano cosa fosse esattamente un francobollo, è stato bello raccontarglielo col vecchio libro della Emme).

Quindi ognuno li ha colorati e decorati come più preferiva, indicando sugli alettoni il mittente (vero o nom de plume) e il destinatario (se ce n’era uno specifico, altrimenti hanno trovato la perfetta formula «il destinatario sei tu», altra grande intuizione, la poesia dà del tu a tutti).

L’idea originaria era, a questo punto, di scendere in strada o in un parco cittadino o anche solo nel parcheggio del supermercato e lanciare le poesie aeree perché a raccoglierle, leggerle e rilanciarle fossero i passanti, i casuali destinatari di poche parole alate.

Non è stato possibile, per ovvie ragioni. Il compromesso è stato lanciarli in classe e lasciare che ciascuno raccogliesse quello di un compagno, di modo da creare comunque uno scambio, una circolazione di parole e leggerezza che fosse un piccolo reciproco dono. Come scrive C., 9 anni, «noi abbiamo bisogno di parole».

Un ragazzino di prima media non ha voluto lanciarlo, perché gli piacerebbe spedirlo davvero per posta a una cugina che sta a Buenos Aires. Secondo la postina ce la può fare.

Che le “arie” gli siano “buone”.