A cavallo di un secchio

Quinta novità 2021: un racconto di Franz Kafka, Il cavaliere del secchio, tradotto da Anita Raja, illustrato da Anais Tonelli, con una postafzione di Martino Negri. Un libro che ha richiesto un lungo lavoro. Capire come portare in libreria una nuova edizione di un testo di Kafka, con l'ambizione di illustrarlo, non è una passeggiata.

[di Giovanna Zoboli]

La copertina de Il cavaliere del secchio di Franz Kafka, tradotto da Anita Raja e illustrato da Anais Tonelli (Topipittori, 2021).

Il primo racconto di Kafka che ho letto è stato Il cavaliere del secchio. Era nell’antologia scolastica di quella materia che una tempo si chiamava narrativa, non so se esista ancora. Erano ancora di là da venire le Lezioni americane di Calvino, in cui proprio questo racconto, Der Kübelreiter, viene indicato come passaporto per il nuovo millennio in chiusura della lezione Leggerezza, forse la più nota del volume: «Avevo parlato dello sciamano e dell’eroe delle fiabe, della privazione sofferta che si trasforma in leggerezza e permette di volare nel regno in cui ogni mancanza sarà magicamente risarcita. Avevo parlato delle streghe che volavano su umili arnesi domestici come può essere un secchio. Ma l’eroe di questo racconto di Kafka, non sembra dotato di poteri sciamanici né stregoneschi; né il regno al di là delle Montagne di Ghiaccio sembra quello in cui il secchio vuoto troverà di che riempirsi. Tanto più che se fosse pieno non permetterebbe di volare. Così, a cavallo del nostro secchio, ci affacceremo al nuovo millennio, senza sperare di trovarvi nulla di più di quello che saremo capaci di portarvi. La leggerezza, per esempio, le cui virtù questa conferenza ha cercato d’illustrare». Ma quelli che sanno scegliere bene le letture da mettere nelle antologie (e sanno che i ragazzi hanno sensi acuti), sono sempre esistiti e a quei tempi la letteratura non metteva paura a genitori, amministratori pubblici e dirigenti scolastici come a volte accade ora.

Ero alle medie, non ricordo in quale classe. Ricordo bene, però, che impressione mi fece il racconto. Era qualcosa di mai sperimentato prima e, dato che sono sempre stata una lettrice, già a quell’epoca avevo una discreta esperienza di cosa fosse un racconto o un romanzo, un bel racconto, un bel romanzo. Kafka parlava una lingua del tutto straordinaria, in cui il terrore puro si mescolava a uno splendore ipnotico.

Faccio un esempio, per chi non conoscesse questo testo che è il monologo di un misterioso personaggio che in una gelida notte d’inverno, rimasto senza carbone e senza mezzi per acquistarlo, cerca di procurarsene una palata del più scadente, andando solitario e senza trovare ascolto per le strade vuote di una cittadina. Benché si tratti di una ben miserabile impresa, priva di qualsiasi gloria, perché tale è la povertà nera di cui il personaggio è ostaggio, la voce che parla nel racconto trasforma la vicenda in una narrazione al tempo stesso accecante e oscura, a cominciare dal favoloso mezzo di trasporto grazie a al quale viene compiuta. Un secchio, per l’appunto. Il semplice gesto di cavalcarlo fa nascere nello spirito del protagonista la figura leggendaria di un cavaliere, così come è consuetudine accada ai bambini che a cavallo di un manico di scopa apprendono la nobiltà di un destriero e delle leggi che governano l’onore e l’onere del suo possesso. Il gelo assassino e nero si trasforma, sotto i colpi di questa voce, in una notte prodigiosa in cui la voce d’oro del cavaliere illumina le tenebre.

Fu questa, esattamente, l’impressione che Kafka mi fece. Una bravura stregonesca, soprannaturale. Una voce lucente in un buio profondissimo. Infatti, non l’ho dimenticata. E quando mi sono chiesta cosa avrebbe potuto illustrare per noi Anais Tonelli dopo essersi cimentata con i Salmi, la risposta è stata quel ricordo, quella voce saltata fuori dalle pagine di un’antologia delle medie: Il cavaliere del secchio.

Scrive Kafka: «In veste di cavaliere del secchio, la mano sul manico – questa è l’imbrigliatura più ovvia – mi volgo giù per le scale a fatica; ma una volta di sotto il mio secchio si leva, possente, possente; non sono meno belli i cammelli accovacciati al suolo quando, scrollandosi, si sollevano sotto il bastone di chi li governa.»

Da quale luogo emergono questi meravigliosi cammelli che appaiono come miraggi nel freddo e cieco nero di questa notte sciagurata? Da dove sono arrivati? Anch’essi sono vittime: un bastone li percuote, ma niente può questa violenza contro l’evidenza della loro bellezza che si solleva, possente. Niente può la miserabile crudeltà dei carbonai, l’ignavia di lui, l’avarizia di lei, contro l’orizzonte fantasmagorico in cui scompare il cavaliere, cacciato: quello dei misteriosissimi Monti Ghiacciati.

In questa narrazione, resa in italiano dal bel lavoro di traduzione di Anita Raja, vi è una quota consistente di infanzia. Un riscatto attraverso la trasfigurazione che possono operare la vita e la parola come solo in certe fiabe o in certe esperienze estreme di sofferenza, accade: mi viene in mente Etty Hillesum, e il suo “cuore pensante”, il suo “pezzetto di brughiera recintato dal filo spinato”. Qualcosa che per il nostro punto di vista è persino oltraggioso: la materialità dell’esistenza non dà scampo e ci induce a “chiamare le cose con il loro nome”, come se il loro nome fosse solo la miseria. Miseria che uccide. Ma è qui che Kafka si alza a una altezza vertiginosa e ci chiede, dal basso dove ci troviamo, di guardarlo. Di alzare lo sguardo verso il cavaliere del secchio. Che vola in virtù del suo destino che è la condanna di un secchio vuoto.

Questo libro, così come lo vedete, è il frutto di un lavoro lungo e piuttosto tormentato. La visionarietà di Kafka non offre molti appigli a un lavoro di illustrazione. Tuttavia non abbiamo mai avuto dubbi sulle capacità di Anais Tonelli, in questo senso. Come scrive Martino Negri nella bella postfazione al racconto, per la quale lo ringraziamo: «Il corredo iconografico di Anais Tonelli è insolito, a tratti enigmatico. Se la prima illustrazione pare avere una plausibile rispondenza con quanto scritto da Kafka, fin dalla seconda il lettore avverte l’avvio di un discorso visivo parallelo al verbale con il quale entra in risonanza, senza mai lasciarsene imbrigliare. Alle tavole intercalate al testo ne seguono altre che rispondono a una logica meno enigmatica, ma pur sempre derivata dalla sfida della prosa di Kafka. Le tavole a chiusura del racconto sono infatti organizzate tematicamente per soggetto – il secchio, il cavaliere, la città, la strada, il carbonaio, la casa, i monti ghiacciati, l’autore – configurandosi come un insieme organico di studi, schizzi, tentativi di dar forma visiva al visibile evocato nelle parole, così come di ciò che le parole non chiamano in causa direttamente, ma pure sta intorno al racconto e lo rende possibile: non tanto un compiuto corredo iconografico dunque, quanto piuttosto una sorta di ragionamento visivo sui problemi pratici posti dalla sfida dell’illustrazione – scegliere cosa rendere visibile, che forma dargli e con quale tecnica – e sul ruolo che le immagini possono giocare nell’economia di un racconto.»

Dopo un avvio lungo e complicato, insieme ad Anais, e attraverso il supporto sempre necessario di Anna Martinucci che ha studiato la forma grafica di questo libro difficile, siamo arrivati a capire, un passo dopo l’altro, seguendo le molteplici direzioni in cui il racconto portava l’illustratrice, quale dovesse essere la relazione fra il testo e le immagini. Qualcosa che somiglia molto a come è organizzato un libretto teatrale dove al testo principale seguono, come appunti visivi, i disegni di personaggi, ambientazioni, atmosfere legati al testo, come per una prossima, grande rappresentazione a cui ci si prepara ad assistere.

Ecco, allora il nostro invito è: fate come se foste a teatro. Sfogliate le pagine del libro che avete fra le mani come foste in quel luogo pieno di attesa che è una platea prima che tutto cominci, nel brusio della sala che formicola di gente, fra i cappotti tolti, le sciarpe sfilate, i saluti, le luci vibranti e i suoni degli strumenti degli orchestrali nascosti nella buca. E poi immaginate che si spengano le luci. Che cada il buio. Che si faccia silenzio. Che si apra il sipario.

Alzate lo sguardo. Ascoltate.