Dietro le quinte

[di Paolo Colombo]

Buster Keaton debuttò sulle scene che era ancora poppante. I suoi genitori, artisti girovaghi di vaudeville, se lo lanciavano da una parte all’altra del palco quando lui era ancora in fasce. A me è andata un po’ meglio. I miei genitori – Chicco e Betty Colombo di Cazzago Brabbia, sul lago di Varese – teatranti e burattinai semi-stanziali, stavano lavorando a un nuovo spettacolo, quando mio padre si buscò la polmonite e fu costretto a letto qualche settimana prima del debutto. Allora, in virtù del solito adagio “lo spettacolo deve continuare”, mia madre si mise al lavoro da sola, preparando a tempo di record testo e burattini. Ovviamente però le serviva aiuto, perché non poteva fare da sola uno spettacolo che era stato pensato per una coppia. Ed ecco che entro in scena io, ragazzino di undici anni, magrissimo, goffo, coi piedi e le gambe che già si allungano a dismisura totalmente fuori dal suo controllo. I miei compiti consistevano, oltre alla manovalanza, nell’occuparmi dalla baracca di audio e luci, nel passare a mia madre i burattini che le occorrevano e occasionalmente nel muoverne alcuni io stesso.

I burattini tradizionali dello spettacolo L’acqua magica, 1978.

Ora, prendere un preadolescente un po’ imbranato e particolarmente propenso al sognare a occhi aperti e metterlo dietro le quinte di uno spettacolo di burattini, dove ogni cosa ha la sua millimetrica collocazione, con le luci che scintillano negli occhi, le figure animate, le musiche… insomma mi ricordo che ogni tanto arrivava una piccola pedata a risvegliarmi dalle mie fantasticherie, anche perché mia madre aveva il microfono quindi non poteva chiamarmi per ricordarmi che doveva entrare in scena il bruco o che era ora di suonare il tamburo.

Hänsel e Gretel, 1985.

I burattini dello spettacolo erano fabbricati interamente in carta e cartoncino, così come anche la baracca, e a ripensarci adesso mi vengono in mente soprattutto come erano fatti sul retro, tutta una sfilza di nuche e schiene di figure colorate che a un certo punto dovevo muovere al ritmo della musica o secondo quello che stava succedendo sulla scena. Non avevo la minima idea, e forse neanche mi ponevo la questione, di come potesse risultare da fuori quell’insieme di movimenti anche un po’ meccanici che eseguivo secondo un ordine prestabilito. Bisogna ricordare che da dentro il suo castello-baracca il burattinaio non vede il pubblico, lo sente e ne percepisce le reazioni, ma il suo rapporto col “fuori” non è per niente immediato, si attua solo attraverso i burattini, che sono la sua sola manifestazione visibile.

Enrico Colombo in Briciole, 1988.

Quando poi mio padre si ristabilì e riprese il suo posto, fu per me un’enorme sorpresa vedere lo spettacolo per la prima volta dalla parte “giusta”, tra il pubblico, e capire come quei movimenti apparentemente astratti e scollegati che io compivo dietro la baracca si incastravano perfettamente con tutte le altre cose che accadevano sulla ribalta e, visti dal di fuori, acquisivano un significato perfettamente leggibile e organico. Benché fossi abituato a vedere spettacoli di teatro, dei miei o di altre compagnie, quella era la prima volta che mi capitava di poter osservare lo stesso fenomeno dall’interno e dall’esterno, di apprendere il trucco prima di scoprire quale fosse la magia.

Cappuccetto dei colori, 1991.

La compagnia

Nel 1921 Buster Keaton gira un corto intitolato The Playhouse in cui, grazie a un avanguardistico gioco di sovraimpressioni, recita tutti i personaggi; non solo, anche nei titoli di testa accanto a ogni mansione compare sempre e solo il suo nome. Per lui era, tra l’altro, un modo di prendere in giro l’egocentrismo di Charlie Chaplin, ma se parlassimo di un burattinaio vecchio stampo sarebbe vero alla lettera.

Il burattinaio della tradizione è impresario, regista, scenografo, pittore, costumista, scultore, light e sound designer, drammaturgo e non ultimo attore dei suoi spettacoli. Costruisce la baracca, ne cuce il sipario e i tendaggi, disegna i fondali, scolpisce e dipinge le teste dei burattini, cuce i vestiti, scrive il testo, lo mette in scena, infine carica tutto su un carro o addirittura in bicicletta e va a presentarlo di paese in paese nella pubblica piazza.

Cartina, 1995.

Betty ed Enrico Colombo in Ero io Pinocchio, 1996.

Così fanno molti burattinai ancora oggi (a parte il carro e la bici), così faceva Gualberto Niemen, che è stato il maestro di mio padre quando decise di lasciare il lavoro di disegnatore tessile per fondare il Teatro dei Burattini di Varese. Dopo qualche anno anche mia madre si è unita alla compagnia dopo aver lavorato per due decenni come maestra elementare. Sebbene uno spettacolo di burattini tradizionali (i cosiddetti burattini “a guanto” con le teste di legno) sia sempre stato in repertorio, nel corso del tempo la compagnia ha esplorato diversi generi di quello che, con una definizione più ampia, viene chiamato “teatro di figura”, lavorando con pupazzi di stoffa e di cartapesta, con oggetti, con le ombre e soprattutto con la carta, che è diventata più di recente il materiale di elezione. Anche il nucleo teatrale si è aperto a diverse collaborazioni più o meno durature nel tempo, lavorando con diversi registi, scenografi, attori, studenti, anche perché la curiosità verso diverse tecniche e differenti linguaggi richiedeva l’abbandono della figura del burattinaio tutto-fare verso una rete di influenze più variegata.

Chicco Colombo con un burattino dello spettacolo Lo sgombero, 1998 (foto di Maurizio Buscarino).

Allo stesso modo la scelta dei soggetti per gli spettacoli si è aperta nel tempo a numerosi influssi, rimanendo legata però a due linee principali, il riferimento alla fiaba classica (Hänsel e Gretel, Cappuccetto rosso, Biancaneve) e l’ispirazione all’arte figurativa (Paul Klee, Mirò). Inoltre, il tema delle rappresentazioni influenza spesso direttamente le scelte della messa in scena: se per esempio in Hänsel e Gretel il buio della sala gioca un ruolo fondamentale, diventando metafora implicita dello spaesamento e dell’abbandono dei due protagonisti, i vari lavori ispirati all’illustratrice Kveta Pacovska mantengono un legame con l’origine libresca attraverso il materiale usato per le figure, la carta.

Faust, 1998.

Volendo, gli spettacoli di teatro di figura si possono rappresentare (quasi) dovunque e in qualunque occasione. In teatro, all’aperto, nelle scuole, in piazza, in un giardino pubblico, per una rassegna, una festività comandata, una festa di paese, un compleanno. Questo significa che il committente può predisporre per te un delizioso praticello all’ombra, raccolto e riparato dai rumori, così come metterti direttamente sotto il tendone dello stand gastronomico. Una volta ho visto i miei genitori fare spettacolo in mezzo a una rotonda, con le auto che passavano tra loro e il pubblico. In questi casi, per profitto e per vocazione, il burattinaio tira dritto: “lo spettacolo deve continuare”. Così però viene quasi del tutto meno la cosa più importante per un teatrante, la relazione col pubblico come momento di incontro autentico, in cui ai bambini non si offra solo una forma di intrattenimento, ma un’esperienza che sia il più possibile intensa.

Betty e Chicco in Biancaneve, 2000.

Non tutti gli spettacoli, tanto meno quelli “da battaglia”, mirano per forza a un’abissale profondità di significato, però l’impegno di chi fa teatro per bambini e ragazzi consiste nel porsi il più possibile alla stessa altezza della loro immaginazione, della loro vivacità intellettuale, della loro vulcanica interiorità. Si dice giustamente che sono il pubblico più difficile, perché spesso non ti fanno la cortesia di un annoiato silenzio, anzi manifestano molto sonoramente il loro poco interesse e non conoscono applausi di circostanza. Però sono altrettanto generosi nel dimostrare il loro gradimento, e allora si capisce il grado di coinvolgimento di cui sono capaci, l’acume dello sguardo, l’attenzione ai dettagli, la competenza nel leggere ciò che vedono e sentono, la capacità di uno sguardo attivo, perfettamente in grado di connettere tra loro le informazioni per arrivare al senso, senza che nessuno debba imboccarli con un significato prestabilito. Quando questo accade l’attore è ripagato di tutti i suoi sforzi e capisce di essere sulla strada giusta.

Numerino Circus, 2004 .

Il giardino di Mirò, 2005.

Io, il burattino

C’è una famosa foto in cui Buster Keaton è seduto su un gradino accanto a una statuetta di legno che lo ritrae. Il burattino grande guarda negli occhi il suo doppio in miniatura e chissà cosa si dicono, telepaticamente.

Anch’io, nel mio piccolo, sono stato burattino: l’Hänsel dello spettacolo di cui ho già parlato era basato su un mio ritratto à la Klee che mio padre aveva dipinto come bozzetto di lavorazione. Poi una mia foto è finita su un manifesto. Poi il mio pupazzo Pippo è scomparso per ricomparire, con mia somma sorpresa, sul palcoscenico. Del mio debutto dietro le quinte ho già detto. Nonostante tutti questi indizi, mi ci sono voluti circa altri quindici anni per capire che forse interessava anche a me fare quel lavoro. Benché continuassi a fare l’aiutante di baracca, il mio interesse era tutto per gli studi letterari e per il cinema. È stato solo verso la fine dell’università e poi durante il dottorato che mi sono di nuovo riavvicinato al mondo del teatro per ragazzi e di figura, collaborando più intensamente coi miei genitori e intraprendendo percorsi di formazione con maestri italiani e stranieri. In seguito ho lavorato con altre compagnie, per esempio col Teatro delle Briciole di Parma, che è da decenni punto di riferimento italiano per il teatro ragazzi, e col duo Bettini-Molnar, maestri a livello europeo di teatro d’oggetti.

      Studio per Hänsel.

 Dettaglio di manifesto per lo spettacolo Nodi.

Da qualche anno porto in giro anche uno spettacolo che è un classico del repertorio di mio padre. Oltre a essere molto divertente da mettere in scena, lo faccio con piacere perché mi sembra un modo concreto di rinnovare l’eredità famigliare e di dare continuità al suo lavoro. Si intitola Briciole. Storie a dieci dita: lui ne ha fatte centinaia di repliche, io l’ho visto tante di quelle volte che mi calza come un guanto. A oggi mi è già capitato in più di un’occasione di avere tra il pubblico persone che avevano assistito allo spettacolo da bambini e che ora erano lì ad accompagnare i loro figli.

Paolo Colombo in Briciole, 2017.