Gatte Cenerentole

[di Federica Iacobelli]

Warwick Goble, Cenerentola (Giambattista Basile, Stories from the Pentamerone, 1911).

Questa è la breve storia di una Cenerentola che, migrando dalle tradizioni orali alle letterature e quindi al teatro, alla musica e al cinema d’animazione, si è misteriosamente fatta tutt’uno con le terre campane e in particolare con la città di Napoli: se n’è fatta metafora, specchio, anima antica e nuova, bella e brutta, ma anche scherzo, sorpresa, dispetto. È una storia di adattamenti, quindi, in un senso largo e reciproco: la storia di come tante versioni di una stessa fiaba (o forse tante fiabe differenti ma unite dall’archetipo che le sorregge) convivano, si mescolino, si trasformino nei diversi luoghi che attraversano e nelle diverse epoche che abitano; di come una trama o alcuni dei suoi personaggi ed elementi, da quelli visibili a quelli più sotterranei e nascosti, possa muoversi tra diversi linguaggi e cambiando forma assumere un’altra sostanza ovvero ritrovare una sostanza originaria; di come soprattutto, che è poi la cosa più arcana, i luoghi che hanno influenzato i diversi adattamenti a loro volta si adattino a quelli, si trasformino con loro o meglio cerchino nelle antiche novelle tracce e memorie di un loro passato, permanenze o distanze rispetto al presente, e certi desideri o illusioni o presagi rivolti al futuro.

In forma di fiaba

Per la maggior parte di noi, probabilmente, Cenerentola è quella raccontata da Charles Perrault alla fine del diciassettesimo secolo nei Racconti di Mamma Oca e poi ripresa da Walt Disney e dai suoi sceneggiatori nel celebre film d’animazione del millenovecentocinquanta: la giovane bella e aristocratica ma sfortunata per via della matrigna e delle sue due figlie che prendono potere in casa del padre relegandola al ruolo di sguattera; la figlioccia di una madrina fata che le permette di andare al ballo del principe di nascosto da tutti e con indosso gli abiti più belli mai visti ma solo fino allo scoccare della mezzanotte, perché da quell’ora in poi ogni magia sarà dissolta; la Cenerentola della scarpina di vetro perduta scappando e poi ritrovata calzandola dalla mano di un principe ormai innamorato; la ragazza dolce e buona che ha sopportato sempre in silenzio ogni umiliazione e che quando infine sposa il figlio del re non si vendica per le cattiverie delle sorelle acquisite ma al contrario accoglie le due con sé a corte trovando anche un buon marito per ciascuna.

Forse qualcuno tiene a mente anche la versione ottocentesca raccolta e narrata dai Fratelli Grimm: quella in cui la giovane orfana di madre non sopporta così tanto le angherie della nuova moglie del ricco padre e delle sue due figlie e invece si lamenta della reclusione e delle fatiche, soffre dell’ingiustizia che subisce ed è frustrata di non poter vivere da ragazza della sua età e della sua condizione; in cui le sorellastre istigate dalla matrigna si tagliano con un coltello parte delle dita dei piedi pur di far calzare a quei loro piedi la scarpetta persa in fuga da Cenerentola e ritrovata dal figlio del re; in cui la magia salvifica arriva da una pianta cresciuta sulla tomba della madre, da un uccello bianco e da due colombelle che nel finale, mentre stanno per celebrarsi le nozze di Cenerentola con il principe e le sorellastre cercano di ingraziarsi quella che un tempo era la loro vittima, ne puniscono la falsità e malvagità cavando loro un occhio per ciascuna lì per lì, quasi all’altare.

Però magari non tutti ricordano che la più antica Cenerentola europea l’ha scritta il letterato e scrittore campano Giovan Battista Basile ed è stata pubblicata nei primi anni trenta del 1600. Da lì, dalla sua opera che per prima in Europa raccoglieva cinquanta fiabe popolari, tutte le altre sono venute. Il sesto racconto della giornata iniziale del suo Lo cunto de li cunti, overo lo trattenemiento de’ peccerille, interamente composto in lingua napoletana e volto in italiano per la prima volta da Benedetto Croce nel 1925, ha per titolo La Gatta Cenerentola e comincia con un evento efferato non più ripreso in seguito: l’uccisione della sua prima matrigna cattiva da parte della giovane Zezolla che le schiaccia la testa sotto il pesante coperchio di un cassone. A spingerla è stata la sua maestra di ricamo, che diventerà a sua volta sposa di suo padre e matrigna ancora più perfida, accompagnata qui non da due ma da ben sei figlie, le sei sorellastre, tutte alleate nel relegare per sempre Zezolla tra gli stracci e le ceneri della cucina e nel chiamarla per questo con disprezzo “Gatta Cenerentola”. Ma anche qui la ragazza ha un aiutante magico, di cui l’avvisa una colombella: quando avrà voglia o bisogno di qualcosa, potrà sempre chiederla alla Colomba delle Fate dell’isola di Sardegna. E proprio in Sardegna deve andare un bel giorno il principe suo padre, subito travolto da richieste di doni da parte delle sei figlie della nuova moglie, laddove Zezolla ha in testa solo quella colomba fatata e si raccomanda con lui di cercarla per ricevere da lei qualunque cosa vorrà mandarle. Però il padre se ne dimentica, preso com’è a soddisfare i desideri smodati delle altre sei. E allora la sua nave, per punizione, resta ferma nel porto sardo, incapace di salpare e di viaggiare, finché l’uomo non ricorda il rimosso e chiede quindi alla colomba il fatidico dono per Zezolla. Da qui la storia percorre la strada che conosciamo, seppur con diverse varianti: grazie a un dattero magico che la fata le ha mandato dalla Sardegna, Gatta Cenerentola può vestirsi da regina e andare alla festa del re come le sue sei sorelle. Il re s’innamora, la fa seguire invano da un servo più volte fino alla volta in cui la ragazza non perde la scarpina che questi può raccogliere e portare al suo signore. Alla fine Zezolla diventa regina, addirittura, e le sorelle se ne tornano a casa gonfie d’invidia.

Lo cunto de li cunti, overo lo trattenemiento de’ peccerille, di Giambattista Basile, nell'edizione 1925 tradotta da Benedetto Croce.

   

Edizioni moderne de Il racconto dei racconti: Adelphi (1994), Garzanti (2017) e Mondadori (con Roberto Piumini, 2020).

Sembra che La Gatta Cenerentola sia proprio originaria della Campania o se non altro del Sud Italia, anche se diversi elementi la legano a fiabe cinesi e del Medio Oriente. Nella province napoletane, irpine e sannite sono documentate del resto altre versioni popolari molto simili. In una di queste, per esempio, il padre rimasto vedovo vorrebbe sposare Zezolla ed è per sfuggire all’incesto che la ragazza, fingendo di accettare, si fa promettere dal genitore tre abiti intessuti con il sole, la luna e le stelle del firmamento, per poi con quelli andare al ballo, conoscere il principe e trasformarsi in regina come sappiamo. A Napoli, poi, la fiaba è associata anche al culto della Madonna di Piedigrotta, che secondo una tradizione avrebbe smarrito sulla spiaggia di Mergellina una scarpetta poi ritrovata da un pescatore. Quanto all’epiteto di gatta, non si tratta solo dell’idea dell’animale che si accuccia tra le ceneri e il focolare o dei felini alle streghe: il riferimento è alle tante storie di metamorfosi da animale a umano, come quella favola di Esopo in cui una gatta innamorata di un giovane chiede e ottiene da Afrodite di essere mutata in donna. E in un’ennesima variante meridionale di Cenerentola la protagonista è una gallina, figlia magica di una lavandaia, che per tre notti perde le penne e diventa una bellissima ragazza.

Tutto questo l’ho scoperto non solo rileggendo le tante “Cenerentole” diventate letteratura ma anche studiando un prezioso quaderno, pubblicato nel 1988 dall’Ente Teatro Cronaca diretto da Mico Galdieri, che raccoglie tra le altre cose le trascrizioni di diverse variazioni sulla fiaba La Gatta Cenerentola da un patrimonio orale pressoché estinto: un piccolo libro pensato e scritto da un musicista, compositore, ricercatore e studioso di nome Roberto De Simone.

La Gatta Cenerentola, di Roberto De Simone (Einaudi, 1977).

In forma di teatro

Non ho mai conosciuto personalmente Roberto De Simone ma il suo nome mi accompagna fin da quando, bambina, vedevo su un palcoscenico estivo un nonno tenore e una zia cantante di musica popolare interpretare personaggi minori della sua opera più gigantesca, una favola in musica in tre atti che aveva debuttato al Festival dei Due Mondi di Spoleto nel 1976. Più ancora del suo nome, mi accompagnava il titolo di quel suo capolavoro teatrale, La gatta Cenerentola, che fin d’allora evocava in me una mescolanza di sentimenti contrastanti, tra luce e oscurità, nobiltà e miseria, un po’ come la città in cui trascorrevo la mia infanzia e poi l’adolescenza e la prima giovinezza, e che dopo ho avuto la fortuna di vedere a teatro diverse volte con la sua regia e la sua compagnia di straordinari attori, cantanti e musicisti.

In quel quaderno del 1988, nato in occasione di una ripresa e nuova messinscena a dodici anni dalla prima, De Simone scriveva che la sua opera «voleva essere il tentativo di visualizzare teatralmente il tessuto onirico e fantastico di un linguaggio collettivo, facendo capo alla tradizione teatrale del melodramma». Per questo, spiegava, si riallacciava al teatro musicale del Settecento, senza alcun riferimento a quello dialettale dell’Ottocento e del Novecento: «Infatti, la scrittura di Gatta, riferendosi al mondo fantastico della favola e del mito, non avrebbe potuto mai servirsi di linguaggi che […] risultano fortemente connotati da uno spiccato naturalismo e da un sostanziale realismo rappresentativo. Oltretutto, il dialetto elaborato nel mio testo ha un valore prevalentemente fonetico-musicale, ed è utilizzato per quelle caratteristiche melodiche e ritmiche, che la lingua italiana non possiede. D’altronde, i cosiddetti ‘contenuti’ di questo tipo di teatro non presuppongono ‘messaggi’ morali da trasmettere verbalmente al pubblico. Anzi, è lo stesso linguaggio, nella sua complessità multiforme, ad essere uno dei principali ‘contenuti’ della Gatta.» Nell’introduzione alla prima edizione Einaudi del testo, datata 1977 e ristampata in diverse edizioni nella Collezione di teatro diretta da Paolo Grassi e Gerardo Guerrieri, De Simone aveva già raccontato la concezione della sua opera, ma l’aveva fatto da più vicino e quindi con un’emozione più calda: «[…] un melodramma nuovo e antico nello stesso tempo come nuove e antiche sono le favole nel momento in cui si raccontano. Un melodramma come favola dove si canta per parlare e si parla per cantare o come favola di un melodramma dove tutti capiscono anche ciò che non si capisce solo a parole. E allora quali parole da rivestire di suoni o suoni da rivestire di parole magari senza parole? Quelle di un modo di parlare diverso da quello usato per vendere carne in scatola e perciò quelle di un mondo diverso dove tutte le lingue sono una e le parole e le frasi sono le esperienze di una storia di paure, di amore e di odio, di violenze fatte e subite allo stesso modo da tutti. Quelle di un altro modo di parlare, non con la grammatica e il vocabolario, ma con gli oggetti del lavoro di tutti i giorni, con i gesti ripetuti dalle stesse persone per mille anni così come nascere, fare l’amore, morire, nel senso di una gioia, di una paura, di una maledizione, di una fatica o di un gioco come il sole e la luna fanno, hanno fatto e faranno. E queste parole erano quelle imparate dalla gente che ancora sa parlare perché chiama festa un giorno in cui si dice la verità e tutti la capiscono e chiama gioco la fatica di avere paura per non avere paura. E queste parole dai cento occhi affollavano i dialoghi di questa favola con una storia scritta perfettamente senza essere scritta […]».

La Gatta Cenerentola di Roberto De Simone a teatro (foto di Alfredo Tabocchini).

Oltre alla lingua e alla musica, era la scenografia la cosa per me più impressionante in quella trasposizione teatrale, che della fiaba di Basile trasformava solo l’elemento magico, qui identificato in uno spiritello leggendario del folklore napoletano chiamato munaciello, mentre tralasciava la prima matrigna ammazzata conservando un tentativo di omicidio di Zezolla nell’azione invano reiterata e quindi tragicomica di chiudere il coperchio di una cassa da biancheria sulla testa dell’unica matrigna della storia. Era una scenografia barocca, fatta di epoche sovrapposte, di dimore barocche decadenti, di mescolanze meravigliose di colori scuri e luminosi, di fasti e distruzioni, ciò che non aveva niente di realistico eppure assomigliava in tutto e per tutto alle fantasie del mio sguardo posato sui palazzi di Napoli quando la attraversavo a piedi seguendo diverse vie, strettissime o larghe, dalla collina fino al lungomare, ma anche su certi squarci di esistenza estiva nelle piazze e nei cortili dei paesi del Sannio o delle isole dell’arcipelago campano.

Nella Cenerentola di Basile, e quindi nella propria, De Simone leggeva la storia «di tutta la gente, le sue frustrazioni, le sue aspirazioni, il suo desiderio di trasformazione, la sua religione naturale repressa dal potere ufficiale, gli aspetti di un matriarcato che ha subito la violenza del patriarcato e la conseguente negatività dello stesso matriarcato dopo tale scontro».

La Gatta Cenerentola di Roberto De Simone a teatro.

In forma di cinema

«La prima idea è arrivata da Ivan Cappiello e dal produttore Luciano Stella, che volevano riadattare in film animato l’opera teatrale di Roberto De Simone», mi ha detto Alessandro Rak all’inizio di una conversazione telefonica. Rak, fumettista, animatore e regista, è uno degli autori di Gatta Cenerentola, lungometraggio d’animazione del 2017 prodotto da Mad Entertainment con Rai Cinema e scritto con Corrado Morra, Marianna Garofalo, Italo Scialdone e con i co-registi Ivan Cappiello, Marino Guarnieri e Dario Sansone. Se ho voluto porgli qualche domanda sull’origine del loro film, è stato perché ancora una volta da quell’antica Cenerentola campana mi sembrava fosse nata un’opera, di cinema in questo caso, capace di raccontare una città, una cultura e un territorio in modo più profondo e complesso di tanti articoli, reportage, inchieste o racconti.

«Ma De Simone è ancora vivo,» ha continuato Rak «la sua Gatta Cenerentola è ancora viva, e l’uno e l’altra hanno uno spessore culturale imponente, unico, per cui il confronto non sarebbe stato facile. Così, a partire dall’idea originaria, e conservando comunque in scrittura un aspetto musical importante, si è deciso di riferirsi alle origini dell’opera teatrale, ovvero alla fiaba di Lo Cunto de li Cunti, lavorando in particolare su due elementi: il suo aspetto più nero, dark, determinato fin da subito dall’efferato assassinio della prima matrigna da parte della protagonista Zezolla, e l’uso della lingua napoletana, che abbiamo voluto tentare di recuperare anche se in una chiave contemporanea».

Frame da Gatta Cenerentola (Mad Entertainment, 2017).

Gatta Cenerentola è quasi interamente ambientato su un’immensa, avveniristica nave che sta ferma nel grande porto e ha nome Megaride, come l’isolotto di tufo abbarbicato sul lungomare di Napoli sopra cui sorge il Castel dell’Ovo e dove la leggenda vuole che con gli occhi chiusi e i capelli ondeggianti nel mare fosse stata ritrovata morta Partenope, la sirena fedele a Persefone sopraffatta dall’insensibilità di Ulisse.

«L’idea della nave come set esisteva fin dal primo soggetto e già riconduceva, indietro rispetto al teatro, a quella nave che nella fiaba di Basile dovrebbe riportare a casa il padre di Zezolla e invece si arena in un porto sardo perché l’uomo ha dimenticato la promessa e il dono magico richiesto da sua figlia. Ma la nave che sta ferma, che non può muoversi, arrivava fino a noi anche come immagine di un futuro inespresso, di un veicolo privo della sua dimensione, perché appunto non salpa e non viaggia».

Nello scafo convivono con l’equipaggio degli ologrammi, che registrano le attività degli abitanti della nave per poi riprodurle ancora e ancora, facendo in modo che il passato e il presente coesistano ma ogni volta in un modo differente: un elemento che non c’era, nel soggetto originario, ma che è arrivata proprio con l’ingresso di Rak nel gruppo di sceneggiatori. «Sono entrato nella scrittura insieme a Morra, Garofalo, Scialdone, Guarnieri e Sansone. E con me è arrivata l’idea degli ologrammi, ovvero dei fantasmi del passato. Continuavo a dirmi che in questo lavoro, in fondo, ci stavamo confrontando con molti retaggi del passato, e di un passato su più livelli; e allora il passato poteva e doveva diventare parte del nostro soggetto, in forma di ologrammi, appunto, di un presente passato che viene registrato e quindi torna di continuo nel presente.» E che quel presente modifica, aggiungo io da spettatrice, in un senso o in un altro, in base a come viene percepito da chi lo sta vivendo.

«Con l’idea degli ologrammi,» ha proseguito Alessandro Rak «c’è stata una rivoluzione nella storia e nella sceneggiatura: la nave ferma restava, ma ad essa andava ad aggiungersi il progetto di un armatore visionario e illuminato».

L’armatore è un uomo di nome Vittorio e di cognome Basile, come lo scrittore che ci ha permesso di leggere e conoscere la Cenerentola nella versione ‘gatta’; è un uomo che vorrebbe far rinascere Napoli, la sua città, e che per questo sta costruendo a bordo della Megaride il “Polo della Scienza e della Memoria”, un progetto tanto vago quanto vasto, appassionato e lungimirante. Vedovo, solo con una figlia ancora piccolissima di nome Mia, Vittorio Basile ha una fedele guardia del corpo, Primo Gemito, che è preoccupato per lui perché sa che chi prova a portare il nuovo in città seguendo le strade della legge e della scienza non è mai ben accetto. Poco dopo, nel giorno del suo matrimonio con la bella Angelica, che è madre di sei figlie, Basile viene ucciso. E Mia, rimasta orfana, viene affidata alle cure della sua nuova matrigna e delle sorellastre, che restano a vivere sulla nave Megaride. Tutto questo accade secondo i piani di Salvatore Lo Giusto, detto ‘o Re, amante di Angelica e desideroso di impossessarsi di ciò che apparteneva a Basile: un uomo che come Basile vuole fare le cose in grande ma seguendo la legge della violenza, della sopraffazione e dell’ignoranza. Perché il suo sogno malvagio diventi realtà, Lo Giusto però deve aspettare quindici anni: il tempo necessario affinché la piccola erede Mia arrivi a compiere diciotto anni e possa finalmente firmare le carte che significheranno il passaggio di proprietà del patrimonio. E sono quindici anni lunghi sia per la matrigna Angelica, che deve gestire da sola il locale ospitato dentro una nave ormai trasformata e davvero ferma, sia per Mia che, maltrattata da Angelica e dalle sue figliastre, rimasta muta a causa dei traumi subiti, è ormai chiamata da tutte ‘la Gatta’ per la sua capacità di infilarsi nelle tubature e negli anfratti più nascosti e stretti della nave pur di sfuggire alle angherie delle altre. ‘O Re ritorna al porto e all’agognata Megaride il giorno del compleanno di Mia, decide addirittura di sposarla al posto di Angelica, ma non si accorge né che gli ologrammi permettono alla ragazza di rivivere il passato drammatico delle ultime ore del padre, scoprendo anche quello che non sarebbe visibile, né che Primo Gemito è tornato per mettere alle sbarre chi ha distrutto i sogni di Vittorio Basile e cercare almeno di salvarne la figlia.

Frame da Gatta Cenerentola (Mad Entertainment, 2017).

«Esiste un racconto mediatico ormai antico che infanga Napoli: una Napoli vittima, come tutte le città che hanno vissuto una lunga e consistente condizione di sottomissione e povertà. Per queste città, per chi ci vive, c’è una domanda costante e difficile: è meglio seguirne la natura ‘povera’ e restare più terra terra, testa bassa e sguardo a terra, non coltivati, con quel che si ha e che si può, o è meglio invece immaginare, sognare un futuro più ampio e costruire utopie, con un progetto largo e visionario? Ed è questo il dilemma che viene raccontato nella relazione conflittuale tra Vittorio Basile e Salvatore Lo Giusto. “È come dare la forchetta d’argento ai morti di fame”, commenta Lo Giusto a un certo punto del film, a proposito dei progetti di Basile. Perché sono due modi diversi di vivere l’appartenenza alla città: aderire a una sua anima misera, gretta, oppure cercare nuove vie. Il progetto di Basile è qualcosa di vago, un “Polo della scienza e della memoria”, ma intanto guarda a un orizzonte aperto, luminoso. E se in Gatta Cenerentola sembra vincere la scelta più povera, la scelta oscura, questo vuol dire anche che il futuro non c’è, ovvero che il futuro è la fine. Nella parte conclusiva della nostra storia il conflitto sembra inglobare tutti i tempi della società, passato presente e futuro, e deflagra. E non c’è nessuno che vinca: perdono tutti. Gli unici che forse si salvano sono i due che saltano dalla nave, i più gentili rispetto a un’esistenza che hanno vissuto per la maggior parte del tempo in dipendenza da decisioni ed eventi accaduti ad altri; ma dico forse, perché non sappiamo che cosa davvero accadrà loro…».

L’ultima Gatta Cenerentola è priva di lieto fine eppure il mondo che disegna e racconta non lascia svuotati ma piuttosto indignati, turbati, feriti e in conseguenza desiderosi di costruire nuovi scenari, nuove visioni che recuperino il passato per immaginare e costruire un futuro vivo. In un universo grafico lontanissimo dalla fiaba disneyana, questa grande opera del cinema d’animazione italiano mette insieme l’amore per un passato culturale e letterario, la conoscenza di un altro passato più tragico e degenerato, una lucida critica all’attualità e uno sguardo in avanti che si nutre di pensiero anziché di illusioni.

Le due parole che definiscono Polo sognato dall’immaginario Basile, la scienza e la memoria, mi fanno risalire l’una a un fatto, l’altra a una riflessione. Il fatto è l’incendio doloso della Città della Scienza a Bagnoli, diecimila metri quadrati di museo, laboratori, incubatori d’impresa, centri di formazione e giardini didattici distrutti dalle fiamme in una notte di marzo del duemilatredici. La riflessione ha a che fare con la consapevolezza, più solida in me dopo aver condiviso questa breve storia, da una parte della coesistenza di diverse epoche e tempi in ogni processo di rielaborazione, e quindi di adattamento, dall’altra di un doppio uso possibile della memoria, sia personale che collettiva: uno conservativo, controllante, statico, e l’altro fervido, vitale, trasformativo. Certe memorie, insomma, possono tenere ferma la nave, e al limite farla affondare, oppure aiutarla a partire e viaggiare.

Frame da Gatta Cenerentola (Mad Entertainment, 2017).