Il re è nudo e noi anche

Ecco la seconda novità di settembre: Il re nudo di Hans Christian Andersen, illustrato da Albertine e tradotto da Daniela Iridie Murgia. È la seconda fiaba che mettiamo in catalogo del grande narratore danese, la prima è stata I cigni selvatici, illustrata da Joanna Concejo e tradotta da Maria Giacobbe. Abbiamo chiesto a Daniela, che con la cultura danese ha molta faniliarità, di scrivere su questa fiaba per il nostro blog, e lei, che non è solo una brava illustratrice, lo ha fatto in modo acuto, incantevole.

[di Daniela Iride Murgia]

Alla richiesta di scrivere liberamente sul libro in uscita Il re è nudo, meglio noto come I Nuovi vestiti dell'imperatore, di H. C. Andersen, fiaba la cui traduzione dal danese mi è stata affidata dai Topipittori, mi sono domandata: e adesso di cosa parlo? Parlo del tradurre, del tradire, dell'adattare, del trasmutare questo testo? No, meglio lasciare a chi ha una competenza consolidata in materia. Sul tradurre però una cosa terrei a dirla. Lungo tutto il percorso di rielaborazione di questa fiaba, c'è stata una sorta di collante che teneva il tutto, un pensiero che ritornava, di più, un sentimento; questa fiaba non parla solo di vanità, stoltezza, vacuità, ma parla anche di invidia, e questa invidia, malcelata, è il vestito che non vediamo, è una coltre trasparente che ricopre tutte le vite dei personaggi descritti. Questa invidia si è insinuata anche in me mentre traducevo, e ho capito presto che era meglio ammetterne la presenza; si tratta di quella che una traduttrice professionista come Susanna Basso definisce una cosa sana e anzi degna di elogio; invidia intesa come faticosa consapevolezza della distanza dalle parole originali dell'autore.

«Il sentimento non è rivolto, intendiamoci, all'autore, né tantomeno alla pratica dell'arte e ai suoi effetti nella vita di chi scrive. È invece riservato alla mirabile capacità delle parole di costruire qualcosa che è, contemporaneamente, molto di più e niente di più di loro stesse. È, insomma, invidia dell'originale. Nostalgia di una felicità verbale [...]. Ogni traduzione, anche la più attenta, anche la più ispirata, non può che offrirsi al testo come desiderio del testo, inarrivabile traguardo e punto di partenza del mestiere.»

Questa fiaba di Andersen non rappresenta un solo mondo, ma un intero sistema interspaziale, intertestuale, intratestuale, uno spazio turbolento, con tanto di fumi, polveri, avvenimenti, implicazioni, significati, semi e sensi che come stelle ti pare di vedere brillare o cadere, mentre in realtà sono già caduti/accaduti. L'autore è arrivato decisamente prima di te. Il significato di questa fiaba di Andersen è talmente prossimo, vivo e contemporaneo che spiazza, nel senso che Andersen arriva all'appuntamento in quella piazza, dove tutti ci dovremmo presentare, decisamente prima di tutti noi; una piazza che non solo ci mette a nudo di fronte alla verità, ma una piazza dove possiamo sentirci accomunati, nudi tutti quanti e non solo il re, una piazza dalla quale poter ripartire, dove i cuori possono ritrovare il coraggio di battere all'unisono ribellandosi agli egotismi e alla vanità che ricopre ogni cosa.

Questa fiaba ci investe come un tir mentre passeggiamo su un lungomare: è una storia che, dietro mentite spoglie, a leggerla bene, insidia e attenta con saggezza, con poche accurate parole e frasi affilate, alla nostra sicurezza che ogni giorno poggia su colonne sempre più vacillanti del significato intrinseco della vita. Vero che questa novella sembrerebbe una metafora della bellezza e della forma estetica, viste con riluttanza e come specchio falsario della realtà. Mi domando allora: non è proprio l'estetica, data dalla forma, la parte plastica e poetica, in contrasto con quella prosaica, a farci sentire appagati e in comunione? Qual è il vero torto qui? Quale l'errore imperdonabile? Quello dell'imperatore che ricerca la bellezza nei suoi vestiti ossessivamente alla moda e nuovi? Quanto ci somiglia questo re che diventa sempre meno regale e sempre più reale avvicinandosi con le sue mancanze e incapacità a ognuno di noi?

Esiste un canone, un tipo ideale, qualcosa che normi la bellezza? Forse il re è solo un uomo, un comunissimo uomo, che non si accontenta del bello canonico e lo cerca fino a perderlo letteralmente di vista, fino a perdersi. Il punto nodale della nota fiaba di Andersen è proprio questo; il vuoto, il nulla, quello che non esiste e quindi non si dovrebbe poter descrivere. In questo senso questa storia è la rappresentazione massima del ladrocinio più atroce e dell'inganno più feroce, a tal punto da far venire il dubbio scandaloso che gli eroi siano, forse, proprio i due furfanti tessitori, così ingegnosi da inventarsi nel dettaglio un vestito che non esiste e la tramatura più sottile di una realtà evanescente, gli unici, o quasi, a non perdere letteralmente la testa. Viene da domandarsi chi siano qui i veri truffatori: i due imbroglioni, solo loro? O piuttosto il re, la sua corte e tutto il suo popolo? Tutti così codardi o maldisposti da nascondere l'atrocità del misfatto, così tanto da arrivare alla nudità, fino a lasciarsi scorticare dallo sguardo complice e dai selfie di tutti; qui sono tutti ad essere complici e collusi in questa bugia che solo l'autenticità disinteressata e pura di un bambino può disinnescare.

Eccoci allora tutti qui, nudi, ma insieme, nella stessa piazza, a rimirarne il vuoto che echeggia, ad ammettere gli errori, a confessare le mancanze, ma anche la voglia di rimetterci in gioco. Di questa fiaba acutissima di Andersen, scelta e voluta dai Topipittori, si coglie tutto il senso dell'attualità. In questa versione appena uscita in Italia l'illustratrice Albertine, con un tratto di sopraffina ironia ed eleganza ci rende più sopportabile l'inganno, pur sottolineandone continuamente i confini. Tramite un segno sottile e continuo, una linea geometrica pura e rotonda, smussa tutte le sconvenienze, gli inciampi dei mortalissimi protagonisti. L'illustratrice non cede alla tentazione del rigoglio, non si fa ipnotizzare dal facile abbaglio della decorazione, ma traslittera, o meglio traduce con il linguaggio visivo, senza travisare, senza cedere alla tentazione della riformulazione. Segue passo passo la narrazione, con le sue figure esili, di una eleganza grottesca, con una linea grafica che delinea i personaggi senza riempirli di colore, lasciandoli svuotati, solo uno di colore, in tutto l'albo, un blu da vecchia penna stilografica a siglare lo spazio e le figure con tutto il vuoto umano dentro.

Eccoci quindi al servizio del bambino, che ci mette in scacco, inchiodandoci all'essenza delle cose; il libro non solo sembra essere stato scritto per lui, ma lui stesso ne suggerisce la riscrittura e la rilettura, una fiaba che è una stanza degli specchi, dove solo tenuti per mano da un bambino abbiamo il coraggio di entrare.