L'estate e tutto il resto

L'ultimo Anno in tasca con cui festeggiamo il decennale della collana è L'estate e tutto il resto, di Arianna Squilloni. Vi proponiamo due capitoli che ci sembrano emblematici, da una parte, della grande libertà con cui questa collana parla di infanzie e di infanzia fuori da ogni conformismo, dall'altra, di quell'attitudine curiosa dei bambini a esplorare il mondo, in tutti i suoi aspetti, anche quelli che gli adulti nascondono per paura, ideologismo, vergogna, ipocrisia. Riprenderemo con i prossimi titoli martedì 14 gennaio. I nostri bambini autobiografici vi augurano un nuovo anno come solo se lo può immaginare un bambino: avventuroso e bellissimo!

La famiglia di mio papà è tremendamente loquace. Non si stancano mai di parlare: fra di loro, con parenti vicini e lontani, amici, colleghi, persone incrociate per caso, bottegai, estranei e persino antenati.

Se non hanno alternative, parlano da soli, recitano poesie, i loro dialoghi favoriti, vecchi discorsi di politici imparati a memoria. Parlano in casa, nell’orto, per strada, in corridoio, nel sonno.

Sono loquaci e pure contagiosi, tanto che da piccola mi raccontava mio papà che persino il genero di una delle sue zie, nella campagna di Russia, durante la prima guerra mondiale, sognò suo suocero, il mio bisnonno donato, che gli diceva: «Che cosa fai qui? Fuggi, figlio mio, vattene da qui se vuoi vivere». e lui lo ascoltò. Nel suo viaggio lo accompagnarono alcuni commilitoni e camminarono per giorni, settimane e mesi, e dalla Russia tornarono a casa.

Nella famiglia di mio padre le comunicazioni si sono sempre prestate a incroci di ogni tipo: morti che parlano con morti, morti che parlano con vivi e vivi che parlano con vivi nei sogni, come quella volta che, durante il servizio militare, mio papà sognò di ricevere un telegramma spedito da suo padre: «Vieni subito a casa che la mamma sta male».

La mattina dopo, al risveglio, mio papà era talmente sconvolto che il suo superiore gli disse: «Vai, vai pure». Quando arrivò a casa, sua mamma gli confermò che effettivamente avevano pensato di scrivergli un telegramma, ma poi avevano preferito non disturbarlo.

Magia.

Mi affascinava la qualità solida di questi pensieri lanciati in aria, lasciati scappare in un momento di distrazione, che arrivavano a condensarsi e a vivere di vita propria. Come in balia di un incantesimo, ascoltavo le storie di mio papà e delle sue sorelle. mi guardavo intorno e pensavo quanto fosse affollato il mondo. Quanto fosse vivo.

Prima o poi avrei acquisito anch’io l’anima comunicativa e ciarliera della famiglia. Ne ero sicura. Per il momento mi esercitavo a camminare in punta di piedi, per il timore di schiacciare senza volerlo un pensiero invisibile in sosta proprio dietro di me.

§

Angiulìn. Angioletto. Il nipote prediletto del nonno. Figlio di suo fratello. Orfano precoce, malato di cuore, morto a nove anni. Il 20 settembre del 1946, quando mia mamma era nata da pochissimi mesi.

«Il 20 settembre del 1946? Non ci posso credere», dicevo sbalordita a mia mamma. «Angiulìn è morto esattamente trent’anni prima che nascessi...».

«Oh, lo so bene. Dovevi vedere l’emozione di tuo nonno quando sei nata. Credeva che la tua nascita fosse legata a un numero magico... in qualche modo Angiulìn doveva essere vicino a te e ti proteggeva. Ti proteggerà sempre.».

«Angiulìn! Senti Angiulìn», gli dicevo a volte guardando il ritratto che il nonno conservava tra le pagine polverose della sua vecchia Bibbia.

«Allora mi senti? Dico, se siamo in sintonia, sulla stessa onda, perché non scendi dallo spazio siderale e mi parli? Devo mettermi in una cabina telefonica e venirti a cercare?».

Niente. Silenzio. Angiulìn non fiatava. Mi guardava serio, forse un po’ smarrito, avvolto in un vestito grigio, un po’ troppo stretto e corto ai polsi.

Angiulìn non mi ha mai detto nulla. Eppure al cimitero gli mettevo sempre i fiori freschi, il nonno ci teneva tanto, ma io ancora di più: dovevo convincere Angiulìn a parlare con me.

Quanto bene gli voleva il nonno. Insieme alla foto, nella Bibbia nel suo comodino, ne conservava anche una ciocca di capelli.

«Angiulìn, però, potresti dirmi qualcosa, non credi?».

A mano a mano che passava il tempo, capivo di non essere come mio papà.

Le cose e le persone, fossero vicine o lontane, vive o morte, per me erano silenziose. Cercavo allora di muovermi in mezzo a esse senza far rumore. E continuavo a sentirmi un po’ sola.

Di tanto in tanto provavo a recuperare le loro voci perdute su in soffitta, tra gli oggetti abbandonati, ma andare fin lassù non era un’impresa agevole. Doveva essere un segreto.

Il nonno nascondeva tutto, dappertutto. Ma soprattutto in soffitta. Sotto le tavole di legno sconnesse si trovavano la medaglia da Cavaliere e quella da Ufficiale. Si trovavano banconote e oggetti impensati.

C’erano cose nascoste anche nella stalla e nel bosco. Ecco, quello che il nonno nascondeva lì era materiale delicato. Lì gli oggetti misteriosi erano protetti da una secchiata di cemento o da un pozzo che si era deciso di abbandonare per il bene del segreto. Resti della guerra, una carabina, una bomba.

Ma non lo potevamo dire a voce alta. Tutte queste coste giacevano nascoste come semi, bulbi da cui in un momento o l’altro sarebbero spuntati i primi getti.

Camminavo silenziosa, senza peso, in soffitta, controllando se lì non fosse ancora nato nulla. il nonno non lo doveva sapere, allora per andare in soffitta aspettavo che lui fosse nei campi. O che schiacciasse un pisolino.

Mi piaceva stare in soffitta. Ascoltavo le voci del paese, e mi sentivo un po’ come quei numi presenti eppure nascosti.