Nursery cryme ovvero dello sopravvivere all'infanzia

[di Elisa Galeati]

Una bambina dal sorriso ieratico maneggia con grazia una mazza da croquet con cui decapita il piccolo compagno di giochi. Questa immagine, ormai leggendaria, a firma dell'illustratore Paul Whitehead, comparì nel 1971 sulla cover dell'album dei Genesis Nursery cryme, in cui il gioco di parole ironizza con il contrasto di macabro e purezza che da sempre ammanta l'immaginario vittoriano.

Nannies e nurseries costituivano due capisaldi istitutivi in un'epoca in cui sopravvivere all'infanzia era una roulette russa. Se per le classi più povere la mortalità era altissima, i problemi non mancavano nemmeno per gli infanti delle classi agiate che dovevano salvarsi da tettarelle killer, ricettacoli di muffe e batteri, passando per “rimedi” di dubbia natura. L'ingrediente principale del Godfrey's Cordial era ad esempio l'oppio, considerato una panacea per strilli, coliche e malesseri vari: un'agitata frettolosa e dal «Bevimi» di Alice ecco affiorare potenziali conseguenze esiziali.

Pubblicità del laudano (o tintura di oppio), un composto di alcol e oppio.

Saliamo dunque assieme le scale che dal primo piano conducono al terzo o quarto della dimora borghese, fino a raggiungere il luogo remoto per eccellenza: la nursery. La sua nascita, che coincide con il periodo vittoriano, definì sì una precisa identità architettonica, ma soprattutto sociale. La traduzione italiana “camera dei bambini” non basta certamente a rivelare un significato assai più complesso e strutturato di uno spazio che è diventato il simbolo dell'immaginario sull'infanzia inglese. Un luogo, appunto, ubicato ai piani alti della casa, con scale e ingresso propri, lontano dal mondo degli adulti che lì non entravano praticamente mai, perché quello era il regno della governante che ne aveva il controllo esclusivo. Ecco farsi concreta in noi una visione romanzesca: la bella nursery vittoriana, con i bambini perfetti, i giochi eleganti, le tate in divisa, la cerimonia del tè. Il rito della children's hour mostrava in realtà spigoli e ombre di un ordinario che era  precisa emanazione di uno status quo.  Un cliché educativo della tipica famiglia vittoriana era «I bambini devono vedersi, ma non sentirsi». La prole vittoriana ed edwardiana era solita incontrare i genitori solo in certi orari programmati del giorno. L'incontro sanciva la dimostrazione di saper dominare e impersonare determinati modelli di comportamento rispettabili. Divertimento e allegria non erano generalmente contemplati.

In una recente nuova traduzione del racconto breve di Frances H. Burnett dal titolo Nella stanza chiusa (a cura di Caravaggio Editore) troviamo questa descrizione: «Cominciò a salire le scale che portavano ai piani superiori [...] non somigliava a nessun'altra stanza che aveva visto. Sembrava più semplice, nonostante fosse un posto grazioso. Le pareti erano coperte di rose, c'erano splendide immagini, e scaffali pieni di libri. C'era un piccolo scrittoio e c'erano due o tre sedioline, e un tavolino. [...] In un angolo si trovava una grande casa delle bambole che dava l'impressione che qualcuno avesse appena smesso di giocarci». Anche qui la tappezzeria color pastello è solo un'apparenza idilliaca che convive con ombre gotiche di un soprannaturale dolce ma ambiguo, di presenze eteree ma ormai defunte.

La nursery tipicamente vittoriana nella Doll's House creata da Miss Amy Miles (1890).

La nursery della Regina Madre (dalla mostra Ideal Home del Daily Mail, 1913).

«In the beginning there was the nursery» dice Bernard, lo scrittore protagonista di Le onde di Virginia Woolf. Dalla letteratura tendiamo un filo alla storia e ritroviamo il 22 di Hyde Park Gate dove nacquero le sorelle Stephen, idealmente non troppo distante dalla dimora dei Banks in Mary Poppins. Si trattava di una villetta a schiera, di cinque piani che diventarono sette per via del sempre maggior spazio della famiglia che andava crescendo. Gli interni erano bui, l'intonaco nero, le tende pesanti. I bambini occupavano due stanze al terzo piano in cui il camino era sempre acceso, l'atmosfera appartata, ma decisamente soffocante. La sorella Vanessa, in particolare, soffriva in quei dieci mesi di permanenza londinese della negazione di ogni stimolo visivo che richiamasse freschezza e varietà e che poteva invece trovare nelle lunghe estati che la famiglia Stephen trascorreva a Talland House, a St Ives, in Cornovaglia, località dove gli Stephen passavano le vacanze estive, e che fu immortalata da Virginia Woolf in To the Lighthouse.

Le sorelle Vanessa e Virginia Stephen, prima di diventare rispettivamente Bell e Woolf.

Vasti orizzonti campestri, acque scure e vibranti costituivano il nutrimento dei suoi primi esperimenti pittorici, slanci refrattari al poco attraente e ombroso giardinetto sul retro di Hyde Park Gate. Quando nel 1904, dopo la morte del padre, i fratelli Stephen decideranno di traslocare, sarà proprio Vanessa a scegliere una dimora alquanto diversa, ubicata al 46 di Gordon Square, Bloomsbury. La scelta determinò una cesura simbolica col passato, lontana dalla rispettabilità pomposa di Kensington e da cattiverie, prepotenze e violenze impensabili. Vanessa scrisse: «Ricordo la curiosa eccitazione provocata dall'inizio di una nuova vita, l'aria, la luce, lo spazio dopo la vecchia casa vittoriana che avevamo lasciato [...] eravamo piene di esperimenti e innovazioni».

L'esterno della Charleston Farmhouse.

Trascorrono una decina d'anni e le fanciulle Stephen, un tempo vittime del silenzio della nursery, dell'eleganza coercitiva dei salotti vittoriani, fioriscono in donne intellettuali e gioiosamente irriducibili alle convenzioni dell'epoca. A pochi passi dalla casa georgiana in mattoni rossi dove nascerà il Gruppo di Bloomsbury, il vulcanico Roger Fry in collaborazione con Vanessa e Duncan Grant, inaugurano nel 1913 un atelier che è passato alla storia come Omega Workshops. Scopo dell'iniziativa? S-travolgere il design inglese, creando oggetti e ambienti di uso quotidiano gradevoli da maneggiare, ma interpreti di uno spirito ludico dalle forme e dai colori ispirati al post-impressionismo e ai motivi cubisti. Per Vanessa lavorare agli Omega fu un'esperienza importante che legò la pittrice alla decoratrice e le permise di spingersi a sperimentare la creazione di atmosfere e opere d'arte totalmente aniconiche.

Le copertine dei libri di Virginia Woolf  create da Vanessa Bell per Hogarth Press.

Disegnato da Vanessa Bell, il menù di una tipica cena agli Omega Workshops.

Fotografie d'epoca della vita agli Omega Workshops: Vanessa Bell nel suo studio e Nina Hemnett con Winifred Gill vestite di tessuti Omega (da The Illustrated London Herald, The British Library, 1915).

Gli interni e gli arredamenti d'avanguardia alla Charleston Farmhouse.

Lo studio di Clive Bell.

Lo studio di Duncan Grant.

È il 30 Novembre del 1913 quando Vanessa scrive una lettera a Grant decretando «La Nursery è terminata». Ora, è giusto ricordare che fino a qualche anno fa le uniche due fotografie dell'opera di Vanessa le si poteva trovare esclusivamente in bianco e nero. Solo nel 2019 con la visita all'esposizione Post-Impressionist Living: The Omega Workshop tenutasi a Charleston, ho avuto l'occasione di poterne apprezzare una versione colorizzata che rende davvero giustizia alla creazione originale della Bell. O meglio, le rende talmente onore che se la Regina Vittoria l'avesse vista, o la Regina di cuori che dir si voglia, non avrebbe esitato a dichiarare «Qualche testa rotolerà per questo!».

La nursery agli Omega Workshops.

Attribuita incautamente dal critico dell'Observer al genio maschile di Fry, il capolavoro fu interamente realizzato da due donne: la già citata e famosa Bell e la poco conosciuta segretaria e artista Omega, Winifred Gill. Visivamente l'impatto è scioccante, soprattutto se lo si paragona agli ambienti dell'epoca. Qui non ritroviamo cavallucci a dondolo, arredi dismessi, rassicuranti carte da parati dalle tinte pastello e, per citare Gathorne Hardy in The rise and fall of the british nanny, «il tiranneggiare mellifluo delle nannies». Qui la decorazione esce dalla cornice, conquista di slancio pareti e soffitto attraverso un découpage di sagome removibili che anticipa la forza espressiva e la fragilità intrinseca dei cut-outs di Matisse. Diversi animali si aggirano per la stanza, ma non sono quelli familiari a un'idea tradizionale di infanzia “da recinto” come cani e cavalli. Protagonisti di una giungla dal respiro selvatico e gaudente sono invece cammelli, pesci esotici e rinoceronti. Questo spazio non contiene, non disciplina, semmai libera: i suoi colori puri e gridati, i verdi e gli scarlatti divengono agenti provocatori di un profondo cambiamento nella concezione pedagogica dell'infanzia. Quali genitori di quell'epoca avrebbero lasciato giocare i figli in una nursery simile? Non sono ravvisabili concessioni di alcun tipo alla vulnerabilità dell'infanzia: dimensioni fuori misura, nessuno standard di sicurezza. Mi piace definirlo “un reclutamento dei bambini nei ranghi del rumore e del colore”, che cambiò per sempre le regole del gioco. Questi bambini esistevano, erano i figli di ménage familiari intricati ed eterodossi, si chiamavano Bell, John, Olivier, Garnett, cognomi tradizionali per tribù non convenzionali. Una memoria fra le tante che vorrei condividere è quella che più mi ha divertita e viene da Katherine Everett in Bricks and Flowers: «Un altro ricordo che conservo è quello del loro boschetto di ciliegi selvatici in fiore e di una ragazza con i capelli rossi al vento e vestita di bianco che era inseguita tra gli alberi da bambini nudi, tutti deliziosi, così pensai. Un giorno mi fu presentato un ragazzo che indossava occhiali da gufo e stava spingendo una carrozzina, mi dissero essere il precettore dei bimbi. "Sei anche la bambinaia?' 'No, sto per partire a piedi per la Turchia e uso la carrozzina per i libri. Non mi porterò nient'altro ma devo avere i libri e questo è il sistema migliore per trasportarli, questa notte farò la traversata per la Francia su un peschereccio.' Si allontanò con la sua carrozzina e non lo vidi più.»

Innumerevoli sono le storie e le contraddizioni che raccontano questi «Children of light», come volle descriverli Virginia Nicholson nel suo Among the bohemians. Sappiate che la giovane esistenza e le imprese ardite di questi “bambini sperduti” ci riguardano da vicino, ci interrogano sull'idea di infanzia che abbiamo oggi, forse troppo rotonda, lineare, a tinte pastello.

Nel suo taccuino di memorie che verrà poi pubblicato col titolo Sketches in Pen and Ink, la Bell dichiarò: «Molto tempo fa, quando eravate giovani, voi stessi, tutti voi, vedevate il mondo come colore. Avreste camminato oltre i bordi delle sedie, dentro il fuoco bello e caldo, che sembrava così adorabile e luminoso, solo se la vostra tata non vi avesse fermato. Ma per quanto emozionante fosse il colore (quanto avete desiderato l'orologio d'oro brillante tenuto così distante da voi) è stato così noioso aver appreso che non è tutto oro quello che luccica, e che quella bellissima vernice verde che avevate sul vostro grembiuli, e che creava trame così meravigliose, era in verità sporca e probabilmente velenosa. In realtà, già allora, eravate pericolosamente simili agli artisti».

E voi, lascereste giocare i vostri figli in questa nursery?

Vanessa Bell con sua figlia Angelica.