Picasso o niente. Ovvero, che cos'è il talento?

[di Giulia Coniglio]

[…] Ci sono persone che di fronte al fatto di dover osservare delle regole per fare un progetto, si sentono bloccate nella loro creatività. Dove va a finire la loro personalità? Si domandano. Stiamo diventando tutti matti? Tutti dei robot? Tutti livellati, tutti uguali? Faranno molti sforzi per capire che certe cose vanno fatte prima e certe altre dopo. Sprecheranno molto tempo per correggere quegli errori che non avrebbero fatto se avessero seguito un metodo progettuale già sperimentato.

Creatività non vuol dire improvvisazione senza metodo: in questo modo si fa solo della confusione e si illudono i giovani a sentirsi artisti liberi e indipendenti. [...] Purtroppo un modo di progettare molto diffuso nelle nostre scuole è quello di incitare gli allievi a trovare idee nuove, come se dovessero inventare tutto daccapo ogni giorno. In questo modo non si aiutano i giovani a una disciplina professionale ma li si spinge verso direzioni sbagliate, per cui quando avranno finito la scuola si troveranno in grandi difficoltà nel lavoro che avranno scelto.

È bene perciò fare subito una distinzione tra il progettista professionista, che ha un metodo progettuale, grazie al quale il suo lavoro viene svolto con precisione e sicurezza, senza perdite di tempo; e il progettista romantico che ha un'idea “geniale” e che cerca di costringere la tecnica a realizzare qualcosa di estremamente difficoltoso, costoso e poco pratico ma bello.[...]

Da cosa nasce cosa, Bruno Munari, biblioteca di Cultura moderna, 1981.

Pablo Picasso.

Cosa aggiungere alle parole di Munari? Poco. Voglio però rispondere alla domanda che cos'è il talento?, domanda che mi tormenta da circa trent’anni anni, considerato il fatto che ne ho trentaquattro, mi pare giunto il tempo di darmi risposte. Da piccola ero convinta che o eri Picasso o niente. Prendi la matita e il toro esce da solo. Tac, toro. Tac, Guernica. Ricordo ancora la frustrazione, ne sento ancora il dolore sul tappeto del nostro salotto da ricchi commercianti. In tv avevano dato uno speciale sull'artista e il narratore aveva detto che all'età di cinque anni, quella felice mano spagnola, riproduceva corpi perfetti. Il mio piccolo ego non poteva essere da meno: perché Picasso sì e io no? Cosa aveva lui più di me? Non me ne facevo una ragione, ma al posto di fare, di esercitarmi, stavo lì a pensare, a non fare. Credo che questo sia stato il mio primo problema: pensare senza fare.

David Hockney.

Più tardi, essendo io il prodotto scolastico di ciò che Munari descrive alla perfezione, ed essendo figlia degli anni Novanta, decisi di dare la colpa alla televisione dei miei fallimenti artistici, più o meno come mio nonno per i suoi fallimenti amorosi. Sono ancora arrabbiata con la televisione: nonostante i libri letti e le esperienze accumulate, quella scatola ancora ci racconta che gli artisti e il talento nascono dal nulla. Per rendere umano il genio il contorno è quello di una storia triste che solo la fortuna e la tenacia possono riscattare. In buona sostanza la fiaba Disney con l'eroe tormentato dalle difficoltà e l'oggetto magico del caso che lo renderà invincibile. Impariamo a non lavorare, ad affidarci a qualcosa di indefinito, alla fortuna e alla manna dal cielo. Guardiamo chi ce l'ha fatta con ammirazione e invidia pensando al bacio della fortuna. Il nostro ego vuole vedere solo il trionfo del finale, il vissero tutti felici e contenti. Speriamo in un incontro rivelatore, di essere scoperti, sollevati e riconosciuti. Viviamo le nostre giornate in modo schizofrenico in alternanza tra il farcela e no. Associamo il talento alla popolarità, ai soldi, alla fama. Come scrive Munari, il progettista romantico vive in una bolla, non ascolta nessuno e si ostina a credere che dal giallo e il blu nasca il marrone.

Karen Blixen.

Un giorno, dopo anni di vorrei ma non posso, mi arriva una doccia fredda in un ristorante cinese. Come al solito avevo ordinato riso cantonese e ravioli al vapore, un grande classico. Ero con un'amica di origini vietnamite che di riso se ne intende e per questo mi trovavo nel migliore ristorante cinese della città. A fine pasto lei chiede i biscotti della fortuna, i migliori, a suo dire. Ci portano un cestino pieno di piccoli pacchetti dorati per darci la possibilità di scegliere la nostra fortuna e io, preda di una crisi nera, ne scelgo uno senza attenzione. In quel periodo della mia vita credevo tantissimo in Paolo Fox, tutto il resto era menzogna. Apro il biscotto e trovo nero su bianco questa frase: Il successo viene con lo sforzo, non da solo. Che poi uno dice, i biscotti della fortuna. Fino a quel momento la mia vita si era poggiata sulla storia di Picasso, sull'artista romantico, sul dramma, sul fare un lavoro odiato ma prestigioso. Quel biscotto, di cui nessuno conosce il sapore, mi ha prima gettato nello sconforto e poi nella cruda verità: dovevo iniziare a vivere la mia vita e non quella di un eroe romantico da due lire. Fino a quel momento, un po' per merito, un pò per tenacia, avevo frequentato ambienti artistici di grande professionalità e io mi ero ritrovata a surfare tra i bravi senza fare domande, pensando che loro fossero bravi grazie al talento, quindi al caso e che io fossi lì per altre doti non ancora riconosciute. Quando inizi a osservare seriamente i bravi, scopri che fanno paura. Ti costringono a porti delle domande, ti portano, se decidi di seguirli, in territori nuovi. I bravi ti mettono con le spalle al muro, non ti lasciano scampo e di fronte al bivio della consapevolezza inizia la scoperta.

Agatha Christie.

Ho spento la televisione, ho dato un taglio a  Paolo Fox. Ho iniziato a pensare che il sogno americano fosse solo americano, quella storia che accompagni la tua amica e diventi famosa e magra mangiando tutto il giorno. Per non confondere le acque mi sono licenziata e ho iniziato a dar la caccia ai bravi, e li ho trovati. I bravi sono in ogni campo: io li ho cercati nelle mie affinità ma vivono dappertutto, basta avere un po' di attenzione. Si riconoscono facilmente perché lavorano come pazzi, sono determinati, se ne fregano delle apparenze e ascoltano. I bravi sono disciplinati e sanno che i loro sforzi verranno ripagati; hanno pazienza, si mettono in discussione e sono generosi. Hanno vite normali ma, proprio perché bravi, le loro vite diventano speciali. I bravi possono avere un talento o più di uno ma tutto assume un'aria leggera perchè la bravura è cosi, è lieta.

Coco Chanel.

Georgia O'Keeffe.

Mai mettersi a confronto con i nerd, pena l’annientamento di qualsiasi spirito avventuriero. I nerd vanno sfruttati e basta, vanno consultati per dubbi di tipo tecnico o saperi di tipo teorico. Con i nerd non si discute, si subisce, che sia in fila alla posta, dal medico, al supermercato tra i grissini e i biscotti secchi o al cinema alla fine l’argomento sarà inevitabilmente nerdizzato e pieno di specifiche puntualizzazioni. Quando mi trovo in questa situazione il mio occhio inizia a cercare le uscite di emergenza, i maniglioni antipanico rosso fuoco, sento il mio corpo scendere lentamente nelle sabbie mobili e fa capolino un sentimento di nausea misto depressione. Come quando alla radio passano Baglioni e la vita diventa una serie di inutili eventi pieni di dolore.

Liliana Cavani.

Le Corbusier.

Il talento è una necessità, un punto di vista, una voce che non riesce a tacere, un orecchio da elefante nel mondo. La razionalità ci aiuta a capire che questa necessità va messa da qualche parte con disciplina e rigore attraverso uno strumento, uno qualsiasi, ed ecco qui che entrano in gioco la bravura e la tenacia. Il talento non ha che fare con il riconoscimento e la fama: quelle vengono se siamo capaci di raccontarci agli altri, se siamo dei designer professionisti, per dirla con Munari.

Una volta scelto, lo strumento va incanalato con generosità; va curato e annaffiato come un'orchidea molto delicata. Il talento ha a che fare con la ricerca di se stessi, con il dubbio. Ho visto con i miei occhi che più si vuol bene al proprio talento e più si lascia spazio alla disciplina e più la possibilità che tutto questo fare venga riconosciuto si fa reale. Quando addomesticato, il talento trasuda umiltà, lascia la porta aperta al limite per superarlo, discute con l'oscurità mettendola in luce. Il talento è testardo: sono la bravura e la determinazione a renderlo flessibile, mobile e aperto alle esperienze. Il problema si può presentare quando il talento incontra un sogno. Nel mio errare ho conosciuto tante persone di talento che erano ferme, ostinate e chiuse senza via d'uscita nel loro sogno non ancora diventato realtà. Persone adulte e arrabbiate, immobili a guardare e a far le pulci agli altri, a quelli che ce l'hanno fatta. Il sogno era diventato un incubo.

Roald Dahl.

David Lynch.

Alcuni dei bravi che ho incontrato nel volermi bene mi hanno rivelato un segreto: il talento va messo al servizio del medium - giusto per scomodare McLuhan - lavorando ogni giorno con dedizione. Il lavoro è la chiave di tutto. È nel lavoro la soluzione. Nella fatica. Nella frustrazione che è componente del fare. Solo il lavoro ci rivelerà che qualsiasi sogno vogliamo realizzare diventerà una parte importante della nostra vita. Che sia scrivere, cantare, disegnare, recitare, ballare o far mostra del proprio corpo; costruire case, risolvere problemi, insegnare, suonare, dirigere orchestre o diventare Roberto Baggio. Tutti ma proprio tutti hanno fatto cose all’apparenza inutili nella loro carriera e molti hanno continuato anche quando potevano smettere, semplicemente per dare verità al loro lavoro. Tutti sono scesi a compromessi e non grazie al talento ma grazie alla bravura nel saperlo addomesticare, nel renderlo umile e duttile e sottomesso alla materia.

Patti Smith.

Alexander Colder.

E Picasso? Maradona? Hemingway? Jimi Hendrix? Questi servono come la casa di marzapane ad Hansel e Gretel: qualcosa che desideriamo ardentemente toccare, vedere, mangiare, vivere e sognare, ma che ci illude fino a prova contraria. Questo però scivola nel mito, entra nella scatola degli idoli che nutrono i sogni e i sogni a loro volta risvegliano il talento.

Ed è così che si chiudono i cerchi.