Vedere, guardare, osservare

[di Susanna Mattiangeli]

La copertina distesa di Al museo, di Susanna Mattiangeli e Vessela Nikolova.

Che differenza c’è tra vedere, guardare e osservare? Sono parole, si dirà, che registrano il passaggio dalla semplice percezione alla concentrazione, dallo sguardo casuale alla ricerca, all’intenzione. Spesso è solo una questione di tempo: quello trascorso di fronte a un oggetto ma anche quello necessario ad allenare la nostra consapevolezza. Tuttavia, ogni volta che si ragiona sulla relazione tra questi termini imparentati, sulle loro etimologie e sugli atteggiamenti corrispondenti, resta la sensazione di non arrivare mai a una risposta definitiva, valida sempre e per tutti.

Eva forse non ha mai pensato a queste cose, oltretutto i suoi occhi sono ora fissi ora mobili, a volte le due cose insieme; le può capitare di osservare disattenta, mentre un’immagine catturata di sfuggita le può restare dentro a lungo. Vedere, del resto, non è necessariamente un atto superficiale: può succedere che si capisca di più, che si veda meglio, quando non c’è intenzione o quando si fa in modo di spogliarsene, provando a dimenticarsi di quello che si sa.

Al museo è il terzo albo che mostra la realtà attraverso gli occhi di Eva, la bambina che nelle pagine di In spiaggia si aggirava tra corpi più o meno vestiti alla ricerca del suo ombrellone rosso e che seguiva a modo suo la nonna in mezzo ai banchi della frutta, dei pigiami di cotone e degli oggetti misteriosi in Al mercato.

Idealmente il passaggio dalla spiaggia al museo è un percorso nella direzione di un’osservazione sempre più attenta e specifica: da uno spazio aperto dove gli incontri sono casuali a un luogo chiuso dedicato all’uso consapevole degli occhi. Basta però restare qualche ora tra quadri e statue, visitatori e guardiani per rendersi conto che al museo non è così scontato stabilire chi guarda cosa e perché. Eva, come sempre, guarda tutto, a cominciare dal cartellino con il laccetto da infilare al collo che la maestra distribuisce a tutti i bambini della sua classe prima di entrare. Nota subito che un cartellino simile, con nome e numero di identificazione, è stato assegnato alle opere d’arte per spiegarne in breve la storia, per dare qualche notizia se si perde il filo mentre parla la guida.

Anche i bambini della classe, con il loro cartellino al collo, possono essere ritrovati se perdono il filo invisibile che lega i gruppi tra una sala e l’altra: lo stesso filo che univa Eva alla nonna tra i banchi del mercato, un laccio molto elastico che la nostra protagonista ormai conosce bene. Del resto al museo basta andare avanti e da qualche parte si arriverà, anche se il percorso non è mai davvero lo stesso per tutti. Per Eva le cose da guardare sono così tante: la signora che si avvicina tanto al quadro da entrarci quasi dentro; l’uomo con il soprabito beige che, da dentro la cornice, studia i tatuaggi di una visitatrice; i ritratti, le nature morte, i corpi, i cento dettagli e gli altrettanti modi di rappresentare la realtà. Il museo mostra tanto senza mai rivelare davvero tutto, perché per quanto tempo si passi davanti a un’immagine, per quante parole si leggano o si ascoltino su di essa, ci sarà sempre una cosa in più da scoprire, da vedere meglio o qualcosa che si è capito ma che non si riesce a dire.

 

Io sono quella che ha avuto il compito di compilare il cartellino, di mettere la didascalia alle bellissime immagini di Vessela Nikolova che davvero in questo albo ha celebrato il gioco del vedere, del guardare, dell’osservare.

Scegliendo una tra le tante storie possibili, tra i tanti possibili pensieri di Eva durante la sua gita al museo, ho lasciato spazio a una quantità incalcolabile di altre storie: una per ogni opera riprodotta, per ogni personaggio rappresentato, tutte quelle che possono sortire dalle varie combinazioni e anche quella ulteriore, un po’ segreta, che resta quando si chiude il libro e che forse non c’è bisogno di raccontare a parole.